domenica 25 gennaio 2009

Capitolo 13. Questa è la Fine

13.


Mail, tanti racconti di viaggio, qualche accenno al fatto che prima o poi si sarebbero di nuovo fermato in Italia, per una visita. Lei, il cricetino, questa volta però non aveva retto ed aveva fatto quello che nessuno avrebbe immaginato che una come lei potesse anche solo pensare. Una mattina, una delle tante, dove tutto è sempre uguale a se stesso, si era chiusa in macchina con il tubo di scarico dirottato dentro l’abitacolo. Come aveva fatto il padre di Sam tanti anni prima. Sam se ne sarebbe sentito responsabile, una colpa da aggiungere alle tante. Ma che importanza aveva. Lei non sarebbe stata lì a raccogliere i suoi tormenti, illudendosi di lenirli con il proprio amore.

Voice of a friend
(Voce d’amico)

your words
i read
and feel
and interest me
for they are real
poetic, almost fearless
honest
clear
I am in a hazy daysmoke-filled from distant forest fires
that burn the spring flowers
that envelope the elk and deer with wasting disease
that worry second homeowner
sand melt the desert sand to glass
global warming
how about ma nature bringing mankind
to it's knees?
remembering those Aspen days
yoga
guinness on the deck
songs
youthful abandon
art
ideas
nonconformity
do not get inticed by the cheese
it looks imported, expensive, exotic, satisfying
but alas, it is an illusion
where are you
what are you doing, planing
going
are you praying
burning smudge, incense
doing sweats
My friend
keep the faith
for you are a chosen one also


le tue parole / le leggo / e le sento / e mi interessano / per il fatto che sono vere / poetiche, quasi senza paura / oneste / chiare / sono in una giornata sfuocata / riempita di fumo dai fuochi di foreste distanti / che bruciano i fiori primaverili / che avvolge l'alce e il cervo con una malattia che consuma / che preoccupa i proprietari di seconde case / e fonde la sabbia del deserto in vetro / il riscaldamento del pianeta / che ne pensa madre natura del fatto che mette in ginocchio il genere umano?/
Ricordando i giorni di Aspen / yoga / guinness sulla veranda / canzoni / spensieratezza giovanile / arte / idee / non conformismo /
Non farti tentare dal formaggio / sembra importato, costoso, esotico, soddisfacente / ma, mi spiace, è un'illusione /
dove sei / cosa stai cosa stai facendo, progettando / dove stai andando / stai pregando / bruciando incensi / producendo essenze /
amica mia / rimani fedele / perchè anche tu sei una degli eletti.

la poesia Voice of a Friend è di David Koffed

sabato 24 gennaio 2009

Capitolo 12.

12.


Guardando indietro questi ultimi anni, da quando mia madre è morta, ho capito che per la maggior parte del tempo ho vissuto nel delirio. Mi sono sentito arrabbiato, deluso, risentito, triste, disgustato verso me stesso, sfatto per l’alcol, disperato, senza via d’uscita e chissà cosa ancora. Ci sono stati solo alcuni brevi periodi di contentezza, sparsi qua e là negli anni. Uno di questi è stato con te. Vorrei che tutto fosse diverso, vorrei potermi alzare un giorno e avere una qualche speranza, una direzione. Mi rimprovero tutti gli errori che ho fatto. Ho una pessima opinione di me.
Me ne sto qui seduto, in un hotel senza anima, vicino al magazzino gigante in cui è impacchettato tutto ciò che possiedo. C’è un andirivieni di camion di carbone per tutto il giorno fino a notte. Da queste parti abitano bifolchi, ognuno che viaggia a bordo di un enorme pick up che non sa fare altro che tracannare benzina. Lavorano per pozzi di petrolio che spuntano come funghi. Li costruiscono persino su terreni privati; il governo americano del resto detiene la maggior parte dei diritti sull’estrazione dei minerali.
Sono qui da quasi una settimana. Marianna, amica mia da più di quindici anni, sta vivendo alti e bassi con il lavoro alla serra. Si è andata a confinare nella fattoria che i suoi genitori, ora ultraottantenni, comprarono una ventina di anni fa. I suoi fratelli, entrambe più vecchi, lavorano per lei o in qualche modo si occupano di cose che ruotano attorno alla fattoria.
La politica del loro vivere è fuori dal mio modo di vedere le cose. Mi sto chiamando fuori dalla scena. Non hanno occhi che per il loro orticello. Così me ne sto qui, nel mio hotel. Il mio mondo, il mondo intero, sta cambiando davanti ai miei occhi.
Già in questa stagione il canale tv delle previsioni del tempo parla di temperature da record. Gli incendi nelle foreste, che di solito sono all’ordine del giorno in estate inoltrata, stanno già divampando. Ce n’è uno sull’isola di Catalina, a venti miglia dalla costa della California. Un paio di tornado hanno cancellato intere città, la gente sta morendo. Ci sono poche risorse per fronteggiare tutto questo, dal momento che la guerra in Iraq sta togliendo ogni energia agli Stati Uniti.
Da parte mia, non prendo più antidepressivi, di tanto in tanto solo qualche pastiglietta per dormire. Anche il bere ormai è cosa poco frequente.
Mi dispiace di essere una persona così difficile. Nessuna scusa, ma lascia che ti dica che non è stato facile. Qui in Amerika sono scivolato sempre più in basso, ritrovandomi senza neanche un amico. Nessuno da biasimare: è solo colpa mia. Il che mi porta sempre più giù, nel mio buco nero. Sono sempre più disperato, ho difficoltà a dormire. Forse dovrei tornare agli antidepressivi, ma sono titubante. Devastato e ferito.
In una hotel, davanti a me le montagne di Aspen hanno ancora la neve. Ricordo che quando vivevo qui era quello che mi faceva andare fuori di testa: l’estate arrivava all’improvviso, per un paio di mesi, e poi subito di nuovo la neve, a volte anche ai primi di settembre.
Se sapessi scrivere meglio a macchina, scriverei di più. Forse dovrei prendere qualche lezione. Ricordo mio padre sempre alla macchina da scrivere, con lo stesso stile a due dita che ho io, sebbene il suo fosse molto più veloce.
Non so decidere che direzione prendere, e perché. A volte penso che potrei prendere la macchina e mettermi in viaggio fino su, verso l’Alaska. Ma in fin dei conti non sembra un'idea grandiosa. E alla fine torno sempre al punto di partenza, la solitudine: nasci solo, incontri gente lungo la strada, muori solo. Mi dispiace se ti ho fatto del male.

giovedì 22 gennaio 2009

tipi da collezione

Di certa fotografia ciò che mi affascina, anzi mi fa quasi buona invidia, è l'attitudine alla catalogazione, la costanza a seguire e riprodurre un tema, sempre quello, non per ossessione o alambicco filosofico, ma per necessità di conoscere, collezionare, schedare l'esistente. Fino al 19 aprile il Museo Morandi di Bologna ospita la mostra "Bernd & Hilla Becher al Museo Morandi": 165 immagini dei coniugi tedeschi raggruppate in 14 Tipologie.
Chi affronta le foto dei Becher senza saperne la storia può rimanerne freddo. Hilla, che ha 74 anni e che due anni fa è rimastra vedova di Bernd, a Bologna ha raccontato la sua storia. Bernd era nato nel '31 a Siegen, paesaggio industriale della Germania. Sin da bambino, quel paesaggio in bianco e nero, il bianco del cielo e il nero dell'acciaio di silos, altiforni, ciminiere, aveva immaginato di dipingerlo. Fino a quando, studente, conobbe Hilla, studentessa e fotografa. E i due cominciarono a fotografarlo. I primi scatti sono del 1959. "Non sapevamo certo dove saremmo da lì arrivati", racconta oggi Hilla a proposito delle loro serie che hanno fatto il giro del mondo, dei musei più blasonati, dei libri di storia dell'arte contemporanea, della fotografia e dell'architettura. Dal suo racconto si capisce che, in un certo senso, sono serie involontarie: uno scatto, poi l'altro, poi un'altro ancora. Messi uno accanto all'altro, sono diventate tipologie: i gasometri, le torri di raffreddamento e così via. Le foto sono tutte quasi identiche e così diverse se le si guarda con lo spirito dei Becher, che è quello dell'entomologo, del biologo, di Linneo, che al solo nominarlo Hilla si illumina. "Sono famiglie di somiglianze e diversità - dice - come le immagine di fauna e flora dei libri di storia naturale dove le piante sono accostate per vederne similitudini e divergenze e per capire che cosa le ha determinate".
Hilla racconta che per avere quelle immagini (il soggetto sempre rigorosamente al centro dello scatto, tutto in bianco e nero, sullo sfondo di un cielo opaco, mai un'ombra, mai una nuvola, come fossero immagini prese tutte allo stesso momento e nello stesso luogo e non a distanza di decenni, in Germani come negli Stati Uniti), per avere quelle immagini, dicevo, Hilla racconta che lei e Bernd hanno azzerato ogni coinvolgimento emotivo e resistito ad ogni tentazione atmosferica: la primavera, un cielo al tramonto, una luce particolare. E' il rigore del catalogatore, del resto, dell'entomologo.
Ancor prima che a Bologna, questa mostra l'avevo vista nell'agosto scorso al Guggenheim di Los Angeles. Accanto a quella dei Becher c'era la mostra di August Sander, a suo modo un collezionista di tipi anche lui. Lui, però, collezionava tipi umani, divisi per mestiere, categoria sociale. Una sorta di fisiognomica. Nel fotografare zingari e preti, poliziotti e donne delle pulizie, maniscalchi e bohemienne, gli capitarono davanti alla macchina fotografica i primi nazisti. E lui a poco a poco capì che quelli non erano solo militari; intuì, attraverso la catalogazione, l'orrore.
Il fascino, allora, sta proprio qui: nella costanza, nella perseveranza di scegliere uno scopo e di farselo proprio. E quella che può apparire un'ossessione sul particolare si trasforma nella capacità di leggere, per suo tramite, una grande storia generale.
Ci sarebbe anche la storia dei Becher da raccontare. Di questa signora con la frangetta e il caschetto bianco e grigio e di suo marito. Insieme, uniti come il guscio di un uovo che non ha punti di giuntura, hanno creato una cosa tutta loro, hanno espresso la loro unione singole e personale, in un linguaggio che tutto il mondo conosce con il loro nome. Ma questa è un'altra storia.

martedì 20 gennaio 2009

Capitolo 11.

11.


Alla fine la storia era andata così: l’autunno era arrivato da un po’, l’estate era ormai una cartolina ingiallita e io come un cricetino avevo ricominciato a correre nella routine. Corri, cricetino, corri, corri, tanto non arriverai mai da nessuna parte. Lavoro, lavoro, lavoro: in fondo quello era un grande anestetico. Che per giunta dava le sue soddisfazioni. Proprio quella sera stava per darmene una delle più grandi degli ultimi anni. In bici, in mezzo al traffico e sotto una pioggerellina d’autunno, di quelle che non infradiciano ma ti insinuano l’umido nelle ossa, avevo ricevuto la telefonata che aspettavo da tempo, per quel nuovo contratto a cui avevo tanto lavorato. Grandioso! Quella sera, al solito aperitivo, con i soliti amici al solito bar avrei avuto qualcosa da festeggiare!
E lì, al solito bar, seduto a un tavolo defilato c’era Sam. Non aveva annunciato il suo ritorno tanto sapeva che mi avrebbe trovata lì.
Stop!
Questo era solo un film, l’ennesimo che la protagonista di questa storia si era proiettata in testa tante volte, pedalando in bici fra casa e l’ufficio e cercando in questo modo, rifugiandosi in un film tutto suo, di non soccombere sotto il peso di quella città dalla luce di latte, dove tutto perde i contorni e sembra sempre irrimediabilmente uguale.
Stop! Quello era solo un film e la vita – come aveva detto lui – non è un film di Hollywood. Sam se ne era andato, sebbene non avesse mai smesso di scrivere.

“Dal mio letto: sono così confuso qui a Montreal, Quebec, Canada. Ubriaco, come al solito, solo in un hotel... Direction home a complete unknown... perle di sudore sulle sopraciglia. Oh Dio, perdona i miei peccati, sono completamente prostrato. Mi manchi, F. mi manca il tuo terrazzo, le tue piante, i tuoi rampicanti, e la tua.............. pelle succulenta. Mi dispiace di essere così inaffidabile. Posso solo fare un passo alla volta. Love, S.”.

lunedì 19 gennaio 2009

Intervallo tra il capitolo 10 e il capitolo 11

Raven
(Corvo)



seeing a healer
with a raven
tatooed on his calf
outside
in the forever wind
wooden chimes
remind me
of humid bamboo xylophone
screating warm tropical
coconut songs
as he pulls
the old muscle patterns
from my bones
seeing the shadow
everywhere I go
in sleep
in waking
reflected in a tear
that wets my breast
a shadow
in bright sun
light
no mercy, no shame
giving the water
to the silent cries
of the lonely tree
transplanted in the desert
from the forest by the stream
bending in the afternoon spirit wind
shanging on to the earth
watching helplessly
as i do the dance
of the stranger
in a family unfamiliar
hearing faint echoes
of temple chimes
and prayer wheels
spinning with the power
of the one


vedendo un guaritore / con un corvo /tatuato sul polpaccio / fuori / nel vento senza fine / campane di legno / mi ricordano / xilofoni di umido bambù / che creano calde tropicali /canzoni di noci di cocco / non appena tende / muscoli invecchiati /dalle mie ossa/
vedendo l’ombra / ovunque io vada / nel sonno /nella veglia / riflessa in una lacrima / che bagna il mio petto / un’ombra / nell’accesa luce del sole / nessuna grazia, nessuna vergogna
dando acqua / alle grida silenti / dell’albero solitario / trapiantato nel deserto / dalla foresta nei pressi di un corso d’acqua / inclinato nei venti pomeridiani / rimanendo sospeso alla terra
guardando indifeso / come faccio io la danza / dello straniero / in una famiglia poco familiare / udendo deboli eco / delle campane del tempio / e ingranaggi di preghiera / che filano con la forza / di uno.
la poesia è di David Koffend

venerdì 16 gennaio 2009

Capitolo 10.


10.


L’addio è stato come in un film: aeroporto, occhiali neri per nascondere le lacrime (io), sigarette fumate una dietro l’altra, nervosamente, prima di salire sull’aereo (lui).
“Non ci credi che tornerò, eh?”, mi aveva detto la sera prima.
“Mi mancherai”, aveva aggiunto più tardi.
No, io non riuscivo a crederci. Il destino va assecondato, dovevo chiamarlo a me pensando positivo. Ma non ce la facevo.
Sam era partito ed era stato, ancora una volta, come in un film di Hollywood: l’avevo saluto all’aeroporto, con lui fino all’ultimo secondo, e non ero riuscita a trattenere le lacrime. Quando ormai non c’era più altro da fare per lui che imbarcarsi, avevo preso la scala mobile per scendere al piano di sotto e riprendere la macchina. Era stato lì, in fondo all’ultimo gradino, che avevo sentito come se qualcosa, qualcuno mi stesse chiamando. Alzando gli occhi, vidi che era lui a seguirmi con lo sguardo: con una mano mi mandava un bacio. Io, invece, senza riuscire a fare un gesto me ne stavo andando. Per poi rincorrerlo cinque minuti dopo.
“I love you”, gli dissi baciandolo.
“Take care”, mi rispose.
Tutto è finito così. E tutto è tornato uguale a quello di sempre. Con in più una tristezza che pensavo che non sarei mai riuscita a contenere, con la paura che mi potesse soffocare. Bastava un niente, una parola detta male, o che a me sembrava tale, per colmare la misura e far tracimare il vaso delle lacrime. Dentro solo un dolore che spaccava in due. Il cervello sempre in moto e il pensiero che batteva costantemente dove la mente doleva.
“Stop thinking, Francesca, your mind is noisy”, mi diceva a volte Sam nel buio della notte.
In quei giorni non c’era verso di fermare il mio cervello. Ero io che avevo sbagliato, continuava a ripetermi una voce nella mia mente, ero io che l’avevo fatto fuggire con le mie lacrime, con le mie richiese d’amore, ero io che non ero stata capace di essere lieve, di regalargli leggerezza piuttosto che un altro peso da caricarsi sulle spalle. Ero io che oscillavo continuamente dal voler essere una persona libera, sicura di sé, e la realtà fatta invece di mille paure, insicurezze. Passavo in rassegna gli amici con un’unica domanda fissa: pensi che tornerà?
Mi ero raccontata una favola. Non era l’amore quello che avevo incontrato quel giorno, per caso, non era il principe azzurro, il cowboy dei miei sogni di bambina. Non era una favola a lieto fine, bensì un incubo. I sogni, quelli veri, quelli che si fanno di notte ad occhi chiusi, dicono sempre la verità. E così era stato anche per quello che avevo fatto io quella notte. Avevo sognato che Sam mi aveva portata con sé in America a conoscere ciò che era rimasto della sua famiglia, cioè una coppia di vecchi zii. Perfetto, no?
Era un sogno che diventava realtà, mi dicevo io nel sonno. Ma non era così. L’America non era poi questo gran posto: guardandomi attorno mi pareva di vedere un paesaggio non tanto diverso dagli Appennini, da quelle montagnuzze monotone e a me così note da essere diventate noiose. Anche gli zii avevano un che di squallido, ordinario.
“Vieni con me, stai con me e viaggiamo insieme per qualche mese”, mi chiedeva Sam nel sogno. Fantastico, no? Era sempre quello che avevo sperato. Invece c’era qualcosa che non andava.
“Da gennaio”, devo avergli risposto nel mio film notturno, rimandando di qualche mese quello che fino a poco tempo prima sembrava un miraggio per raggiungere il quale avrei dato chissà cosa.
Altri segnali di disagio si affacciavano alla soglia del mio inconscio: un’ansia di fondo e la sensazione di non potermi fidare completamente di lui. Che cosa era successo? Era come se il mio sogno ad occhi chiusi, persino quello, non riuscisse ad essere bello, perfetto e dorato come un sogno vero dovrebbe essere. Era compromesso, incrinato: c’era qualcosa che non filava. Chi ne aveva scritto la sceneggiatura? Certo, uno che di sogni se ne intendeva poco. E cosa voleva dirmi poi quella visione imperfetta? Che l’America, quella metaforica in cui avevo identificato le mie ambizioni, le mie mete irraggiungibili, non era quell’America lontana, quella dei film western. Che l'America la dovevo cercare dentro di me.
Sam tre mesi prima si era presentato ai miei occhi bello da impazzire: parlava un’altra lingua, veniva da un altro mondo ed aveva girato per luoghi lontani. Avevo fatto due conti e mi ci era voluto solo un attimo per tradurre tutto questo nella visione di un cowboy a cavallo. Bastava montare sulla sua sella, aggrapparsi alla sua schiena (che era bella e forte; come mi piaceva di notte stringermela contro il corpo) e fuggire via con lui, verso l’America, quella del mito.
Presto mi ero accorta però che non era così. Ma non riuscivo a scendere da quella sella. Non volevo. Se avessi lasciato la presa che ne sarebbe stato di me? Mi sarei ritrovata nel mezzo del niente, perduta. E poi fa male, si sa, cascare da cavallo, ci si può rompere l’osso del collo.
Sam non era un pioniere mitologico. Era un uomo, semplice, nudo, uno che aveva paura. Era malato e dimenava la sua malattia e il dolore che gli procurava come una sciabola. Scagliava fendenti che suonavano come ricatti. Impuntava la lama della sua sofferenza dentro la carne di chi gli stava vicino. Non sapeva fare altro: non aveva altro da condividere con una donna se non il suo dolore pericoloso.Io avevo la testa piena di pensieri contradditori: da una parte la lucidità di tutto questo, ma dall’altra l’odore del sangue mi attraeva.

martedì 13 gennaio 2009

Capitolo 9.

9.



Quel giorno arrivò. Per la precisione, una domenica mattina. “Mi sento che devo partire”, mi disse. Prima la Danimarca e da lì quella che in fondo rimaneva casa sua: l’America. Questa volta, quindi, avrebbe portato via tutte le sue cose. Ci saremmo rivisti, teneva a ripetere, ma chissà mai quando, dove e perché. La sera prima mi aveva detto che nonostante il suo cuore striminzito e spaventato da tre diversi matrimoni, mi amava. E da lì tante cose bellissime che ora risulta inutile ripetere.

Tuttavia la responsabilità, la responsabilità del mio amore, dell’amore che io dicevo di provare per lui, era troppa ed era troppo presto per farsene carico.
Io avevo mantenuto una pacatezza e una serenità che non avrei mai pensato di avere dentro di me. Questo era lui, questa era la sua decisione, e io cosa potevo farci?
Sam mi piaceva perché era così. Da quel giorno però avevo cominciato a guardarlo con altri occhi. Non lo vedevo più come si guarda un essere in carne ed ossa, ma filtrato attraverso una di quelle tante foto che gli avevo fatto nei mesi in cui eravamo stati insieme, tantissime foto scattate ogni volta pensando che sarebbe arrivato il giorno in cui mi sarebbero rimaste solo quelle da sfogliare, risfogliare, e basta. Complicato, no? Certo, poco ottimista. Me lo avevano già detto altri: “tu fai il funerale alle persone prima ancora che siano morte”. Era vero, era così: mi trovavo più a mio agio nella tristezza, nel pensare che le cose andavano sempre a finire male, piuttosto che nella gioia, nella speranza. Del resto, avevo sempre pensato di meritarmi poco o niente di essere felice.

sabato 10 gennaio 2009

Intervallo tra il cap.8 e il cap.9

Gosthpiss
(Pipì di fantasma)

is it holy water I feel sprinkling on my closed eyes?
a godess blessing me, or a god?
I hear a rattling, a clicking sound
could it be the huge scorpions guarding the temple?
or an unseen gate, vine-covered and rusted
to some dark passage way beneath the overgrown arena?
sit, I sit, wathching my incandecent thoughts
float by, around, inside and out
the inside of my eye
lids the screen
still feeling the sprinkling...
maybe it's ghostpiss

è acqua santa quella che sento sgocciolare sui miei occhi chiusi? / una dea che mi sta dando la sua benedizione, o un dio? / sento un sonaglio, un click / potrebbero essere gli enormi scorpioni che stanno a guardia del tempio? / o un cancello nascosto, coperto di rampicante e arrugginito / verso qualche passaggio scuro sotto l’arena coperta di vegetazione? / siedi, mi siedo, contemplando i miei pensieri incandescenti / che fluttuano in lungo e in largo / l’interno delle mie palpebre come schermo / sentendo ancora lo sgocciolio.... / forse è pipì di fantasma

di David Koffend

sabato 3 gennaio 2009

Capitolo 8


sabato bestiale - pranzo
Inserito originariamente da francesca parisini
8.
Queste storie, Sam, me le raccontava la sera. Ci mettevamo sul terrazzo, o a letto, le luci spente, le finestre spalancate per rinfrescare la casa in quelle notti di torrida estate, solo la fiamma di qualche candela, che lui ogni tanto usava per accendere una sigaretta. Avanti così fino a notte fonda. Sam ricordava, parlava, raccontava. Si animava nel ricostruire dialoghi, luoghi, avventure come se stesse mettendo in piedi la sceneggiatura di un film. A me, infatti, sembrava di vedere già scorrere le immagini. Io ascoltavo, cercando di non perdere una virgola, perché la mattina dopo dovevo trascrivere tutto. Anche a mano, scrivendo freneticamente sulla mia agendina. Era il mio film, il mio sogno, e non volevo che mi scappasse di mente. Lo dovevo riportare nero su bianco, anche per poterlo rileggere e convincermi che era vero, che lo avevo vissuto sul serio.
Sam stava male. All’inizio non era così. “Mi vergognavo”, mi confessò un giorno. Aveva pudore a mostrarmi le sue crisi di panico, o di depressione.
“Ho paura di fare la fine di mio padre”, si lasciava scappare di tanto in tanto.
E mentre leggevo il libro di Pete K., i brividi mi correvano giù per la schiena.
La copia che arrivò a casa mia, a Bologna, dopo una ventina e forse più di giorni di navigazione, recava all’interno il timbro della biblioteca di qualcosa che assomigliava a un centro sociale: "Unemployment Action Centre", era stampigliato in color ruggine sulla prima pagina, poi un indirizzo di una località americana. Le pagine ingiallite, i bordi frastagliati e l’odore di polvere e muffa: mostrava i segni di tutte le mani attraverso cui era passato. O semplicemente, era transitato per diverse cantine, traslochi e robivecchi prima di arrivare in vendita sugli scaffali di quel negozio dell’usato a New York, da cui – mi immaginavo io – un commesso incredulo un giorno l’aveva rispolverato per spedirlo, senza figurarsene la ragione, a una tale che lo aveva richiesto da una città a lui sconosciuta dell’Italia.
La sovracopertina aveva un’immagine eloquente: il primo piano di una natura morta (e mortifera) costituita da un posacenere pieno di cicche, una bottiglia di birra aperta e un vasetto con alcune pillole rovesciate fuori. L’incubo di Sam, che aveva sorriso guardandola e dando un tiro alla sigaretta. “Primo a poi smetto”, ripeteva ogni volta che comprava un pacchetto.
In quarta di copertina, un ritratto dell’autore: capelli brizzolati che arrivavano fino alle spalle, una camicia hawaiana mezza aperta sul petto. Pete aveva 52 anni quando scrisse quel libro. La stessa età di suo figlio al momento in cui io lo avevo conosciuto. E i due si assomigliavano più di quanto sia lecito tra un padre e figlio.
"Anche mio padre faceva il giornalista", mi aveva raccontato al nostro primo incontro.
"Che tipo di giornalismo?", gli chiesi.
"Raccontava storie".
Pete raccontava nel suo libro che il suo lavoro era cercare storie, personaggi, vite straordinarie, o semplicemente fuori dall'ordinario, dalla quotidianità di chi li avrebbe lette; ci poteva anche mettere una settimana o due per scrivere un articolo, pezzi lunghi in cui la scrittura aveva ancora un ruolo da protagonista.
"Me lo ricordo mio padre che stava ore e ore alla macchina da scrivere. Batteva sui tasti con due dita: non aveva mai imparato davvero a dattilografare, ma andava veloce comunque".
La sua lunga lettera alla moglie aveva un attacco molto giornalistico, ad effetto. Le prime pagine erano la fedele riproduzione del documento che aveva sancito il divorzio tra i due; quelle a seguire il lungo referto di un medico che aveva diagnosticato la sua depressione.
Poi il racconto di una vita vissuta nella routine di un giorno dopo l'altro, notti scampate ai pensieri più neri tra alcol, sigarette e sonniferi, mattine stordite, animate da qualche buon proposito che già nelle ultime ore del pomeriggio aveva speso di gran lunga quel poco di slancio con cui si era affacciato al nuovo sole.
Pete dopo il divorzio si era trasferito in quello che descriveva come un mini appartamento di Manhattan. Dei figli parlava poco; qualche fine settimana in campeggio, qualche visita, ma poco altro. Come tutti i depressi, Pete non sembrava vedere granché al di fuori della spirale del suo male oscuro. Lunga e sofferta, alla fine del libro arrivava la decisione di lasciare gli Stati Uniti alla volta delle isole Samoa, con l'idea, l'illusione, di cominciare un'altra vita. Così non sarebbe stato.
"Qualche anno prima di morire - mi aveva raccontato Sam con un tono di risentimento nei confronti del padre - si era trasferito a San Francisco, in un minuscolo appartamento in cima a una strada. Ogni tanto andavo a trovarlo e mi si stringeva il cuore. Lui si sentiva a disagio, si sentiva in obbligo di liberarmi presto dal peso di quella visita. E passava il tempo a commiserarsi".
Poi arrivò il giorno del suicidio: in garage, con il gas di scarico dell'auto. Di più non ho mai saputo. E anche quei ricordi Sam me li ha sempre riportati in modo molto confuso. Neanche si ricordava l'anno in cui tutto questo era successo.
Un giorno, tornando a casa dal lavoro, trovai Sam lungo disteso sul letto. Aveva passato la giornata a leggersi il libro di suo padre. Forse ero stata egoista, mi rimproverai più tardi. Avevo indotto Sam a quella lettura per una mia esigenza di conoscenza, di mettere lui e la sua vita a posto nelle caselle della mia testa. Lui, invece, di ordine non ne aveva nessun bisogno. Anzi, faceva di tutto, da anni, per rimuovere.
Oppure no. Quando se ne andò, infatti, si mise il libro in valigia, contento anche se stupito che il caso, la vita avesse voluto che a farglielo conoscere fosse stato qualcuno molto ma molto lontano da tutta quella storia passata.

giovedì 1 gennaio 2009

Riflessioni da primo dell'anno

Scrive Isabel in un messaggio che la sua amica di Firenze al suo uomo che non sapeva stare alle giuste regole rispose così: "vergognati!". E aggiunge però Isabel di non sperare "di educarli". Allora mentre guido in autostrada, tra la neve, nella prima mattina del nuovo anno, penso che solo tardi ho imparato ad apprezzare l'amicizia delle donne, fatta di piccoli gesti di solidarietà piuttosto che competizioni, di frasi messe al posto giusto nel momento giusto, di piccole presenze capaci di colmare grandi assenze.
A lungo sono stata più amica degli uomini che delle donne. Spesso ho mischiato questa amicizia con l'amore. E degli uomini sono stata fidanzata e amante, amica e badante, complice e assistente, devota e adulatrice, bacchettatrice e cultrice.
Quando ho deciso di riposarmi un po', ho scoperto l'amicizia delle donne. Di Ifat, pioniera dell'esistenza. Di Francesca, accogliente, che regala ranocchi da annegare nell'acqua per farli diventare principi. Della Cris che chatta ironica nel cuore della notte. Della Sabri, burbero Capricorno coi piedi attaccati alla terra. Poi la Lori, quella volta che disse che colui che scambiavo per amore "non era un tipo presente a se stesso". O la Kuni, sorella che non ho avuto. Sono solo le ultime in ordine di tempo.
E agli uomini?
Dice Ivano Fossati: "Io l'amore l'avevo in mente ma ho conosciuto solo gente e posso solo andare avanti fintanto che qualcuno è come me".
Sussurra Leonard Cohen:
Because of a few songs
Wherein I spoke of their mystery,
Women have been
Exceptionally kind to my old age.
They make a secret place
In their busy lives
And they take me there.
They become naked
In their different ways
and they say,"Look at me, Leonard
Look at me one last time.
"Then they bend over the bed
And cover me up
Like a baby that is shivering.
Per il resto, sposo le righe di una donna, Lucìa Etxebarrìa: "...il jazz è come l'amore. Perché in effetti non c'è niente di più logorante di un campo d'azione limitato, ma non c'è neanche niente di più appassionante del fatto di sovvertirlo. L'amore s'improvvisa ogni giorno, e la verità è che se vogliamo sopravvivere sentimentalmente dobbiamo diventare dissidenti dell'amore, avanguardia dell'amore, dobbiamo imparare a sviluppare diversi modi di interpretarlo".