lunedì 29 dicembre 2008

Fuori dalla pelle

Insomnia come se piovesse.
Meglio: nevicasse.
Il dentro non comunica col fuori. Cerca corsa, vento, slavina.
Trova invece senno, compostezza, equilibrio.
La testa dice è un bene, ma dentro lo sa che non è così.
Necessita di altro.
Probabile che basterebbe dirlo.
Ma teme che se dà sfogo anche solo a un fiato si alza il tornado, che travolge, poi distrugge.
La natura dell'uomo non ha spalle così larghe da reggere la furia dei suoi elementi.
Allora il dentro rinuncia a paralare al fuori.
Cerca la fuga, per quanto può.
Ma sa che è solo questione di ore.
Che è lì lì.

domenica 28 dicembre 2008

Capitolo 7.


Torna a grande (grandina) richiesta la storia di Sam. Se la goda chi l'ha apprezzata.


7.


Avevo vent’anni quando me ne andai per un po’ ad Hong Kong da mio padre. Lui lavorava lì per un quotidiano inglese, da quando si era licenziato dal Time Magazine e separato da mia madre. Io avevo finito la scuola e, neanche a dirlo, non sapevo che fare della mia vita. Così lui mi trovò un lavoro presso il suo giornale come fattorino. Guadagnavo un centinaio di dollari al mese, una miseria, soprattutto perchè mi facevano correre da una parte all’altra della città. Non avevo però molte spese a cui fare fronte, visto che stavo con lui in un appartamento bellissimo, sulle pendici di una collina. Dal terrazzo si vedeva tutta la città, un vero incanto. Ma se buttavi l’occhio appena dove finivano i tuoi piedi, vedevi che era pieno di topi schifosi, grandi così.
Io e mio padre finivamo il lavoro alla stessa ora, attorno alle cinque del pomeriggio, e insieme andavamo al circolo della stampa, da dove passavano tutti i corrispondenti dei giornali stranieri impegnati in Oriente. Ci piaceva stare insieme, anche se solo per bere whisky e soda, e spesso ci sbronzavamo. Ad una certa ora lui se ne tornava a casa e io rimanevo lì con i suoi amici giornalisti. Mio padre qualche volta si portava a casa una puttana, non però se sapeva che io sarei tornato presto a casa. Io no. A me non è mai capitato, non mi è mai piaciuto fare sesso in quel modo.
Un giorno ero nell’ufficio di mio padre, stavamo facendo una pausa bevendo caffè quando qualcuno bussò alla porta. Era il mio amico Raymond che era venuto a cercarmi dall’America fin là, in Estremo Oriente. Noi c’erano e-mail e non c’erano telefoni cellulari in quel tempo. Raymond era partito dal Colorado sapendo solo che ero a Hong Kong da mio padre e che mio padre lavorava per un quotidiano inglese. Tuttavia non era poi stato così difficile trovarmi.
Appena lo vide entrare, mio padre lo squadrò di traverso: il mio amico si era presentato con un cappello da cowboy in testa. Che ci faceva un cowboy ad Hong Kong?
Andammo a cena tutti e tre assieme quella sera e alla fine della serata mio padre se ne uscì così: “Raymond, ho cambiato idea su di te”. Nonostante quella presentazione così fuori luogo, era riuscito a conquistarlo, tale era la forza di seduzione di Raymond. E lo stesso fascino, qualche giorno dopo, Raymond lo usò su di me.
“Ehi, amico, perché non ce ne andiamo a Bali? Dicono che sia un posto bellissimo e da qui è davvero uno sputo”.
Partimmo. Ma una volta là, i miei soldi, quei pochi guadagnati al giornale, finirono in un lampo. Mi dissero che lì di fronte, in Australia, non era difficile guadagnare e guadagnare bene. Ci andai ed ebbi fortuna. In pochi giorni trovai uno dei migliori lavori a cui può aspirare uno che cerca velocemente di fare soldi: tre mesi su un peschereccio, come mozzo.
Si dormivano al massimo quattro ore per notte e il lavoro cominciava ancora prima dell’alba. Il barcone pescava a strascico e quando si tiravano su le reti, dentro c’era di tutto. A volte anche qualche squalo che andava ucciso col fucile prima che il pescato fosse rovesciato dalla rete dentro l’enorme piscina sulla barca, per poi venire da qui ripescato e lavorato dai marinai. Finite quelle operazioni, a me e ad altri tre mozzi rimaneva il compito di ripulire il peschereccio da tutte le schifezze rimaste dalla lavorazione del pesce. Per farlo avevamo ciascuno una spazzola con cui grattare a forza di olio di gomito il pavimento di legno. Un giorno la mia spazzola mi scappò in mare. Klaus, il secondo del capitano, un tedesco con l’aria da Gestapo per via dei capelli tagliati quasi a zero, venne da me e mi disse: “Valla a raccogliere”.
“Ehi, Klaus – gli faccio io -, non ci penso neanche: è pieno di squali laggiù”.
Era vero. Poteva capitare che l’imbarcazione si dovesse fare largo tra due ali di squali che correvano ai suoi lati. Klaus non volle sentire ragioni. Del resto, io non gli ero mai andato molto a genio. Mi sollevò senza neanche tanta fatica con l’idea di buttarmi in mare. Io riuscii ad aggrapparmi con entrambe le mani al parapetto, ma arrivò il capitano e mi staccò le dita dalla presa una ad una, cosicché Klaus riuscì nel suo intento. La spazzola intanto aveva preso a galleggiare lontano e mi ci volle un po’ per raggiungerla e quindi per tornare indietro, con sempre quella fottuta paura che uno squalo mi si attaccasse a una gamba.
In quei tre mesi, tuttavia, riuscii a guadagnare un bel po’ di soldi. E gli amici, ai quali avevo detto che partivo per Hong Kong e che ci sarei stato al massimo nove mesi, mi rividero solo dopo tre anni.Erano gli anni in cui io e mia madre non avevamo buoni rapporti, anzi non ne avevamo affatto, per cui lei non si aspettava da me nessuna notizia. A mio padre, invece, ogni tanto spedivo una cartolina.

venerdì 26 dicembre 2008

Natale col padre

"Amoooore!". Entra, lui, fingendo l'aria da marito. Lei è ai piatti, li lava. Lo guarda torvo perchè le piace guardare torvo. L'amico si siede sulla seggiola a dondolo. Dondola e tieni gli occhi rivolti un po' in alto.
Ha fatto Natale col padre.
"Tu hai fatto quella scelta lì - gli ha detto a tavola l'anziano genitore -. Hai scelto di non sposarti. Si vede che ti va bene così".
Ha la discrezione intelligente della gente semplice, il padre.
"Ma il pezzo forte della famiglia era mia madre", soffia il figlio, occhi sempre all'alto e dondolo appena accennato.
Si dicono senza dirsi. Da amici.
"Come quella volta che i tuoi fecero l'anniversario di nozze", incalza lei.
"Oi", raccoglie l'amico chiamando poi la madre per nome. Niente 'mamma'. "Per far la sgaligina si era messa le scarpe di vernice. A metà strada si è infilata da un calzolaio perchè non camminava più".
''Mi comprerò un paio di sandali'', annunciò con finta rassegnazione l'anziana madre che ora non c'è più.
"Tanto andiamo al ristorante. I piedi non te li vede mica nessuno", la confortò il figlio.
E sorridono gli amici. Lui perpetua nel dondolo, lei si lascia alla musica.
Va avanti così per un po'. Non tanto, però. Di soffio in soffio.
"Vado".
Va, l'amico.
Hanno fatto serata. Hanno tirato un'altra riga nel bilancio dei proprio 50 e 40 anni.

venerdì 12 dicembre 2008

A Massimo, a Giovanni

La dottoressa Danila Valenti impasta le parole con le mani, agitando a ritmo del suo parlare dita lunghe e nodose. "La mia paura più grande? Che si scelga la strada più facile". La dottoressa Valenti è una ragazza di 45 anni, un marito, due figli di 13 e 11 anni, una laurea in medicina, oncologia. "La paura dei malati è quella di essere abbandonati. Per i famigliari è il senso di impotenza", spiega sottolineando i suoi racconti con occhi che guardano dritto dentro quelli di chi ascolta. "Perchè una cosa è cadere dalla cima di un palazzo, altra cosa essere accompagnati gradino per gradino, una pausa sul pianerottolo, poi in fondo un saltino di 50 centimetri". Danila Valenti è il direttore medico dell'Hospice Fondazione MT.C. Seràgnoli. Il 'saltino di mezzo metro' è il passaggio dalla vita alla morte di malati oncologici in fase terminale e progressiva, malati che sanno di dover morire. "La nostra società non è preparata a queste malattie: scappa. Scappano anche i medici, oppure si trincerano dietro a un accanimento terapeutico. Io di questo ho paura: che si scelga la via più semplice".
Danila Valenti è un medico che ha messo da parte il senso narcisistico implicito in una professione come quella d'Ippocrate. "Il medico è formato per guarire - spiega - ma quando si trova davanti a malattie incurabili sente frustrazione. Ci sono casi in cui il medico deve accettare di rinunciare a vedere la luce negli occhi di un paziente che lo guarda come un salvatore". I suoi pazienti non guariscono; sono malati terminali che hanno dai 16 ai 102 anni, questo il range di età di chi dal 2002 ad oggi è stato accolto nella struttura di Bentivoglio. Qui si aiutano pazienti e famigliari a controllare il dolore e la sofferenza fisica, a cumpatire, per dirla in latino, cioè 'soffrire con'. Niente a che fare con il nostro compatimento: nessun pietismo nè accondiscendenza. La dottoressa ci tiene a questa distinzione. "Il nostro lavoro è dare vita agli ultimi giorni di vita di una persona, capire cosa significa per lui qualità della vita, cosa significa dignità".
La dottoressa è stata chiamata a capo dell'hospice alla morte del suo maestro, Cesare Maltoni. "Maltoni - racconta - ha cominciato a parlare di hospice nel '92, la legge italiana in materia è del '99. Purtroppo il professore non ha visto la realizzazione di questo posto aperto nel 2002; è morto nel 2001". Lei è un medico dell'Ausl, prestata all'Hospice Seràgnoli, esempio di accordo tra pubblico e privato sociale.
Da studentessa di Medicina all'Università di Bologna è stata volontario in un lebrosario in Zimbabwe. "Sono sempre stata interessata a situazioni di questo genere", confessa in un soffio, senza indulgere su quale sia il 'genere' a cui accenna, senza compiacimenti. La dottoressa Valenti parla poco di sé. Ovvero parla di sé attraverso il suo lavoro, raramente in prima persona. Non è modestia, né distacco. E' questione di visione della vita, di condotta professionale. "Abbiamo fatto capire al personale sanitario che ai pazienti non si da del 'tu' - continua ad agitare le mani -. Se un paziente è un avvocato, io lo chiamo avvocato. Non per riverenza, ma perché il suo lavoro è parte della sua persona, del suo essere che la malattia non cancella". Per rafforzare il suo pensiero prende a prestito (non è donna da citazioni) la Yourcenar: "Nelle Memorie di Adriano si dice: 'difficile rimanere imperatori davanti al medico'".
La raccontano come una donna straordinaria, avanzando paragoni arditi con Madre Teresa di Calcutta. "Io? - sgrana gli occhi da ragazza - Ma mi guardi. E poi sono un tipo polemico, io". "Il nostro - ricomincia parlando di lei e chi lavora con lei - è spirito di servizio. Umanità, senza identificazione. Altrimenti non sei di aiuto". Non sta dentro lo schema dell'intervista la dottoressa Valenti. Racconta anche passeggiando lungo le scale. "La mia paura - ribadisce - è che si scelga la strada più facile. Ci sono malati terminali che non soffrono di dolore fisico, ma non per questo non provano dolore. Per la sofferenza psicologica non c'è terapia. C'è accompagnamento. Anche questa è una fase della nostra vita. E' come se dessi a mia figlia una pillola per non soffrire di una delusione d'amore: la priverei di una parte di vita".

da Repubblica del 12 dicembre 2008, a mia firma

martedì 9 dicembre 2008

Il grande freddo

Ci si conosce da ragazzi, al bar, poi una cena, un sabato al mare. Vite di ragazzi, tutto sembra semplice, leggero, così per sempre. Arriva un giorno e uno di noi, a caso, viene scelto per qualcosa che semplice non è: morire. A neanche quarant'anni, poi. Mentre gli altri, noi, continuiamo a stare al bar, a cena, al mare.Giovanni è partito prima di noi, ma era partito anche prima di morire. Dal giorno in cui era stato scelto, la vita per lui non era più semplice, come la nostra.Questa sera è tornato qui, nelle parole di due filosofi che fanno le pulci al suo morire, applicano la loro scienza, la loro sapienza al suo morire.Io non so, non dico. Azzardo solo che tutto può essere, ma è come se le due fotografie non combaciassero."Impieghi tutta la vita a considerare la tua vita come un dono, poi ti viene chiesto all'improvviso di restituirlo" (Giovanni Cenacchi).
Da lì, dal suo punto di vista, in fondo a me sembra tutto molto più semplice. Tragicamente semplice.

martedì 2 dicembre 2008

Clint, al di là dei ponti

Punto primo: qualcuno dovrebbe impedire alle attrici di rifarsi con la chirurgia plastica. Non è una questione etica e nemmeno estetica. E' questione professionale: finisce che hanno sempre la stessa espressione, mentre gli ammazzano il figlio sotto gli occhi, mentre si arrabbiano davanti all'ennesimo tradimento del marito, mentre sono a cena con la migliore amica e parlano di sesso.
Punto secondo: qualcuno dovrebbe impedire ad Angelina Jolie di recitare. Se proprio proprio ha ancora bisogno di soldi, qualche rivista la faccia posare in copertina con la sua famiglia felice. Siamo disposti a sopportare ancora una volta la melassa pur di non vederla in un altro film.
Punto terzo: sebbene io abbia sempre tacciato di snobismo coloro che sostengono che i film non vanno doppiati, devo fare marcia indietro. Toglieteci di torno i doppiatori, soprattutto quando -pur nel caso di una megaproduzione americana - parlano fuori sincrono rispetto ai personaggi sullo schermo.
Detto questo, dopo molti mesi di sciopero mio personale nei confronti del grande schermo, sono tornata al cinema. Io il cinema non lo sopportavo più: perchè spendere 8 euro per brutte storie raccontate male?
Sono tornata per un grande vecchio, Clint Eastwood, con "Changeling".
Se la protagonista non fosse la Jolie, chissà, magari...... Oppure no, è l'interprete perfetta per una donna a cui rapiscono il figlio, gliene propongono un altro obbligandola a dire che è il suo, la vogliono far passare per matta, la mettono in manicomio, rischia l'elettroshock e molto altro ancora e questa non ha un'iniziativa sua. Tutto ciò che succede le piove addosso per altri motivi: perché c'è un reverendo che attraverso di lei vuole smascherare la polizia corrotta e violenta, perchè c'è una prostituta ingiustamente chiusa in manicomio che vuole vendicare i suoi due aborti, perché un condannato a morte la vuole incontrare per lavarsi la coscienza. Lei non muove un dito. Dice di aspettare, fiduciosa che il figlio sia ancora vivo, ma se fosse per lei non si muoverebbe nulla.
Che rimane, allora, del grande, vecchio Clint? L'America dove tutto può succedere, la fotografia livida, il paesaggio sovraesposto. Se non fosse però che quei cappellini alla Hopper che la Jolie, sempre lei, calza giorno e notte, stuccano un po'. Poi rimangono i grandi temi di tanto cinema americano: chi esce dal gregge viene fatto passare per pazzo, ma basta avere visto "Frances" con Jessica Lange e Sam Shepard per non farsi impressionare da una Angelina Jolie, eccola di nuovo, che pure con gli elettrodi alle tempie ha una sbavatura di ombretto. Poi la pena di morte, l'ignoranza assassina.
Insomma Clint, tu quoque! Per cancellare questo film bruttino (brutto no, a Clint 'brutto' non riesco a dirlo), toccherà di rispolverare "I Ponti di Medison County", almeno l'ultima scena. Oppure quando Francesca (fiera che Meryl Streap abbia portato il mio nome in questa pellicola), con la valigia già pronta, dice a Clint che non può andare con lui. Sigh.

Senza titolo

"Non credo nei presentimenti, ma da tempo ho perso fede nella mia incredulità. I "non ci credo più" sono pur sempre certezze, e non c'è nulla di più ingannevole".

Romain Gary - Chiaro di donna