venerdì 12 dicembre 2008

A Massimo, a Giovanni

La dottoressa Danila Valenti impasta le parole con le mani, agitando a ritmo del suo parlare dita lunghe e nodose. "La mia paura più grande? Che si scelga la strada più facile". La dottoressa Valenti è una ragazza di 45 anni, un marito, due figli di 13 e 11 anni, una laurea in medicina, oncologia. "La paura dei malati è quella di essere abbandonati. Per i famigliari è il senso di impotenza", spiega sottolineando i suoi racconti con occhi che guardano dritto dentro quelli di chi ascolta. "Perchè una cosa è cadere dalla cima di un palazzo, altra cosa essere accompagnati gradino per gradino, una pausa sul pianerottolo, poi in fondo un saltino di 50 centimetri". Danila Valenti è il direttore medico dell'Hospice Fondazione MT.C. Seràgnoli. Il 'saltino di mezzo metro' è il passaggio dalla vita alla morte di malati oncologici in fase terminale e progressiva, malati che sanno di dover morire. "La nostra società non è preparata a queste malattie: scappa. Scappano anche i medici, oppure si trincerano dietro a un accanimento terapeutico. Io di questo ho paura: che si scelga la via più semplice".
Danila Valenti è un medico che ha messo da parte il senso narcisistico implicito in una professione come quella d'Ippocrate. "Il medico è formato per guarire - spiega - ma quando si trova davanti a malattie incurabili sente frustrazione. Ci sono casi in cui il medico deve accettare di rinunciare a vedere la luce negli occhi di un paziente che lo guarda come un salvatore". I suoi pazienti non guariscono; sono malati terminali che hanno dai 16 ai 102 anni, questo il range di età di chi dal 2002 ad oggi è stato accolto nella struttura di Bentivoglio. Qui si aiutano pazienti e famigliari a controllare il dolore e la sofferenza fisica, a cumpatire, per dirla in latino, cioè 'soffrire con'. Niente a che fare con il nostro compatimento: nessun pietismo nè accondiscendenza. La dottoressa ci tiene a questa distinzione. "Il nostro lavoro è dare vita agli ultimi giorni di vita di una persona, capire cosa significa per lui qualità della vita, cosa significa dignità".
La dottoressa è stata chiamata a capo dell'hospice alla morte del suo maestro, Cesare Maltoni. "Maltoni - racconta - ha cominciato a parlare di hospice nel '92, la legge italiana in materia è del '99. Purtroppo il professore non ha visto la realizzazione di questo posto aperto nel 2002; è morto nel 2001". Lei è un medico dell'Ausl, prestata all'Hospice Seràgnoli, esempio di accordo tra pubblico e privato sociale.
Da studentessa di Medicina all'Università di Bologna è stata volontario in un lebrosario in Zimbabwe. "Sono sempre stata interessata a situazioni di questo genere", confessa in un soffio, senza indulgere su quale sia il 'genere' a cui accenna, senza compiacimenti. La dottoressa Valenti parla poco di sé. Ovvero parla di sé attraverso il suo lavoro, raramente in prima persona. Non è modestia, né distacco. E' questione di visione della vita, di condotta professionale. "Abbiamo fatto capire al personale sanitario che ai pazienti non si da del 'tu' - continua ad agitare le mani -. Se un paziente è un avvocato, io lo chiamo avvocato. Non per riverenza, ma perché il suo lavoro è parte della sua persona, del suo essere che la malattia non cancella". Per rafforzare il suo pensiero prende a prestito (non è donna da citazioni) la Yourcenar: "Nelle Memorie di Adriano si dice: 'difficile rimanere imperatori davanti al medico'".
La raccontano come una donna straordinaria, avanzando paragoni arditi con Madre Teresa di Calcutta. "Io? - sgrana gli occhi da ragazza - Ma mi guardi. E poi sono un tipo polemico, io". "Il nostro - ricomincia parlando di lei e chi lavora con lei - è spirito di servizio. Umanità, senza identificazione. Altrimenti non sei di aiuto". Non sta dentro lo schema dell'intervista la dottoressa Valenti. Racconta anche passeggiando lungo le scale. "La mia paura - ribadisce - è che si scelga la strada più facile. Ci sono malati terminali che non soffrono di dolore fisico, ma non per questo non provano dolore. Per la sofferenza psicologica non c'è terapia. C'è accompagnamento. Anche questa è una fase della nostra vita. E' come se dessi a mia figlia una pillola per non soffrire di una delusione d'amore: la priverei di una parte di vita".

da Repubblica del 12 dicembre 2008, a mia firma

1 commento:

Anonimo ha detto...

Peccato che il marito della dottoressa Valenti sia un porco che la tradisce da anni...