lunedì 28 settembre 2009

Albania, 1991 (fine)

4.


Uomini aggrappati alle funi, nell’intento di salire su una nave già stracarica di umani.

Di tanto in tanto un tonfo: poteva succedere che una fune si spezzasse e loro, gli umani, si buttassero in mare per non sfracellarsi sulle pareti arrugginite della nave.

Una bolgia in mare, una bolgia imbarcata, una bolgia sulla pensilina del porto. Gente che urla a gente, gente che saluta altra gente, gente che piange per gente che sta per partire verso un dove che non si sa.

Tra i grappoli di umani, stretti come scimmie a quelle corde, fisso l’occhio su un uomo che si arrampica con le mani e coi piedi, vestito di un solo paio di slip blu elettrico. Sarebbe arrivato in Italia, in mutande. Così si sarebbe presentato al nuovo mondo, alla nuova vita.

Segni di fame sulle facce, al limite della scarnificazione i corpi.

Una donna incinta penzola da una corda che da un palo la deve portare alla carretta: anche lei ci prova. È l’immagine più disperata.

“Nello scattare quelle foto – racconta Luca – avevo messo piede non so come su una piccola piattaforma, una zattera che a un certo punto si staccò dalla banchina”.

Luca scatta, scatta rullini su rullini. Alcuni arriveranno in Italia, una settimana dopo, mentre i giornali raccontavano già di questo carico di disperati, poi rinchiusi nello stadio di Bari. La cronaca diventa storia.

Il racconto, storia privata.


(Ringrazio Luca per avermi permesso di ‘rubargli’ questo racconto)

venerdì 18 settembre 2009

Albania, 1991 (terza parte)




3.


Guardo fuori dal bar, su uno degli incroci più scontati del centro della mia città, e mi pare di essere una turista. Non c'è il sole. Ha piovuto nelle prime ore del mattino e forse pioverà anche più tardi. Eppure c'è una luce bellissima, che scandisce i dettagli di quella architettura che dovrei conoscere come le mie tasche e che ora mi pare di vedere per la prima volta. L'insegna verde di un negozio antico, lì fino a che ero bambina e ora sostituito da una griffe di moda. I tavolini del bar. Il pavimento di acciottolato, i muri rossi dei palazzi. Le bici. Anche la gente non mi sembra quella della mia città. Per una volta non conosco nessuno. Finalmente. Mi sento all'improvviso lontana. In vacanza o addirittura in un altro mondo.

Ora di pranzo e vedo, fuori dal bar, i passanti che vanno e vengono con gli impermeabili colorati infilati provvisoriamente sulle giacche, le macchine fotografiche, il naso per aria a rintracciare gli archi dei palazzi medioevali.

La ragazza del bar ci chiede che cosa vogliamo mangiare. Ha un accento straniero.

"E' slava", mi dice Luca.

Tanto per stare in tema col suo racconto.

La ragazza è alta e magra, bella e giovane. Ma quel viso spigoloso, la pelle delle guance appena segnate da un po' di couperose e gli occhi con l'ombra di qualche piega che presto verrà a spegnerli un po', nell'insieme fanno già intuire come sarà tra trent'anni, da anziana.

Luca ha la stessa faccia del ragazzo della foto in Albania. Diciotto anni di più, però, i capelli grigi e meno ricci, ma sempre lunghi a puntare le spalle.

Apre il computer e mostra le foto di Durazzo. Di quel giorno in cui la prima o forse la seconda nave carica stipata di Albanesi partì per le coste adriatiche dell'Italia.

Io ascolto e immagino lo sbarco di quei clandestini ai primi di un caldissimo agosto del 1991.


Una volta messo finalmente piede in Albania, Luca puntò dritto verso Tirana. La stanza all'Hotel Centrale della capitale costò più di quanto avrebbe immaginato. L'hotel era ancora quello usato dal regime ai tempi d'oro, per ospitare la nomenklatura e i diplomatici che veniva da fuori, per dare un’illusione di benessere, di agiatezza che fuori di lì non si sarebbe rintracciata in nessun altra parte della città, tra la gente comune. Che quella storia fosse finita lo raccontavano anche i muri ingialliti della stanza che assegnarono a quel turista inatteso, unico ospite dell'albergo. Poi lo raccontavano le moquette solevate ai bordi, le lampadine che mancavano in abbondanza dai grandi lampadari di cristallo, le divise ingrigite del personale rimasto, scontroso e svogliato.

Arrivato all'albergo che era già quasi sera, Luca chiese da mangiare, un panino, qualsiasi cosa. Gli fu risposto che era finito tutto, che le cucine erano chiuse da mesi: prima si erano vuotato le dispense, poi era stato anche licenziato il personale. Inutile di quei tempi sostenere spese per servizi che nessuno avrebbe richiesto.

Luca decise si sedersi comunque al bar dell’albergo: una birra in qualche modo gliela rimediarono e bevendo un’idea gli sarebbe venuta. Dopo un po’ che se ne stava lì a puntare l’orlo del bicchiere, si accorso che in quello stanzone sterminato, manie di grandezza di un regime che si pensava eterno, un gruppo di ragazzi albanesi era seduto all’altro lato del bancone, bevendo birra e mangiando toast. Luca si avvicinò, per chiedere se poteva averne uno.


La ragazza slava ci porta i nostri piatti. Luca allontana il computer che rimane accesso su una foto dall’aria un po’ stropicciata: c’è lui, magro e più giovane. È sul tetto di una casa e tiene il braccio attorno alle spalle di un uomo più basso, con la faccia segnata: sembra più vecchio, ma forse non lo è poi più di tanto. Sarà lui a farlo partire una mattina di gran fretta da Tirana verso Durazzo, su un treno stracarico di gente; Luca a guardarsi attorno per cerca di capire dove andrà tutta quella gente, perché in una paese che sembra essere rimasto immobile per secoli è come se tutti quanti, un giorno, all’improvviso, si fossero svegliati nello stesso momento.


(Continua)

giovedì 3 settembre 2009

Albania, 1991 (seconda parte)



2.

Il giorno dopo, di buon ora, Luca sarebbe riuscito a convincere il suo recente amico montenegrino a
riaccompagnarlo alla frontiera. Il suo ospite prese il furgone del padre per accompagnare quel ragazzo che si intestardiva con l’idea di passare il confine. I due si avviarono, fecero di nuovo la stessa strada del giorno prima e Mirak lasciò Luca a qualche metro dalla sbarra che segnava il limite con quella terra sconosciuta ma così mistificata, a pochi passi da casa sua. I due ragazzi si salutarono con una stretta di mano, pacche sulle spalle e un sorriso largo da entrambe le parti.
"Se un giorno verrai in Italia....", "se un giorno tornerai da queste parti.....": si erano in qualche modo fatti capire come si fa in questi casi, da tutte le parti del mondo. Per mostrarsi gratitudine a vicende: Luca per l'ospitalità, Mirak per avergli narrato del suo mondo.
Luca scese, di nuovo lo zaino colorato in spalla, di nuovo lo stesso militare del giorno prima.
Mise la mano in tasca, dove il pomeriggio precedente aveva riposto - era sicuro di averlo fatto - la lettera col permesso per entrare in Albania. Era pronto a riprendere la sua battaglia. Ma la lettera non c'era più. Si voltò e neanche Mirak c'era più. Non aveva nemmeno sentito il rumore del veicolo che si rimetteva in moto e partiva alle sue spalle, tanto era concentrato sulla nuova battaglia che era disposto a combattere anche quel mattino pur di raggiungere la sua meta. Forse, si sorprese a pensare Luca, era stato Mirak, oppure sua madre a sottrargli di nascosto il visto per la terra dei loro detestati vicini di casa, sperando in questo modo di salvarlo da un mondo che loro credevano pericoloso, oscuro, di nessun interesse.
Il militare, tuttavia, riconobbe l'italiano; come avrebbe potuto non riconoscerlo? Era l'unico a presentarsi lì anche quel giorno e forse lo sarebbe stato anche per le settimane a venire, come per molte di quelle passate. Non fece neanche tante storie questa volta, mentre Luca cercava di spiegargli, frugando in tutte le tasche dei suoi vestiti e del suo zaino, che aveva perso la lettera.
Il militare alzò la sbarra e Luca si trovò davanti una strada identica a quella che stava per lasciare dietro di sé. Eppure era finalmente entrato in un mondo nuovo, in Albania.

(continua)
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mercoledì 2 settembre 2009

Albania, 1991 (prima parte)

1.

Luca arrivò alla frontiera a piedi. Montenegro-Albania. Fine luglio. Anno 1991.
Già da lontano, mentre si avvicinava con solo un piccolo zaino sulle spalle, la guardia di frontiera lo fissava senza darsene a vedere. Fissava i passi polverosi di quel ragazzo dalla faccia da adolescente, i capelli con le code allungate sulle spalle e i ricci in testa. I tratti di uno di loro, uno slavo, si sarebbe anche potuto dire. Se non fosse stato per quei jeans, quella maglietta con le scritte: no, si vedeva che non era uno di loro, che era un turista. Un turista: non era una figura comune da quelle parti. Di turisti lì non se ne vedano.
Il puntino di Luca si faceva sempre più vicino e Luca sempre più dettagliato. A pochi passi dalla sbarra e dalla baracca dentro cui se ne stava al riparo la guardia il ragazzo tirò fuori dalla tasca la busta spiegazzata con l'invito dell'ambasciata d'Albania che gli avrebbe permesso di entrare nel paese. Lo porse al militare e in qualche modo cercò di farsi capire. Quello cominciò a parlare la sua lingua senza che Luca, ovviamente, potesse capire una sola parola. Solo dalla scuotere della testa di quel uomo dalla faccia rozza e le labbra strette intuì che c'era qualcosa che non andava, che non sarebbe stato così semplice mettere piede oltre la sbarra. L'uomo gli fece capire che per lui quel foglio non valeva niente. Luca aveva un bel da puntare l'indice sul timbro dell'ambasciata, la firma in calce, quelle poche righe che lui non comprendeva ma in cui sapeva che c'era scritto nero su bianco il suo lasciapassare per quel paese che da pochi mesi, in teoria, aveva aperto le frontiere. Niente.
Allora il ragazzo-turista mostrò all'uomo un altro foglietto: c'era scritto il nome della donna dell'ambasciata a Tirana con cui aveva contrattato l’invito in Albania. Se quel militare sordo e cocciuto si fosse convinto a chiamarla per telefono, glielo avrebbe spiegato lei, nella sua lingua, che il ragazzo italiano poteva entrare, che era un turista, per quanto bizzarro fosse quel suo presentarsi a piedi a una frontiera dimenticata dagli uomini, tra i monti, nel cuore di un fin lì monotono pomeriggio estivo.
Ancora niente da fare. Il militare gli face capire che oggi non si poteva telefonare.
Voleva allontanarlo. Magari, se gli avesse reso la cosa difficile, quel ragazzetto avrebbe desistito, sarebbe tornato indietro, ripiegando in fretta dalla sua capricciosa avventura. Magari puntando a una spiaggia del suo paese, una di quelle che lo slavo ogni tanto aveva intravisto in televisione. Che ci voleva poi andare a fare quel giovane spocchioso italiano in Albania?
Luca per quel giorno ebbe certezza che non c'era niente altro da fare. Allora, per la prima volta da quando era arrivato alla frontiera, ruotò lo sguardo, solo quello, alle sue spalle, lungo la strada che aveva percorso per arrivare fin lì, e si convinse a cercare un modo per raggiungere l'ultimo paese che aveva lasciato dietro di sé.
Nessuno. Non una macchina.
Si rassegnò a girare sui suoi tacchi e s'incamminò. Allontanatosi di una decina di passi, però, si voltò di nuovo verso l'uomo che dalla sua guardiola fingeva di non guardarlo più. "Ci vediamo domani!", gli urlò puntandogli contro l'indice.
Fatte due curve, chissà come, chissà da dove, spuntò un tipo con una motoretta scassata che eruttava fumo nero e scoppi sincopati. Il ragazzo che la guidava non aspettò per fermarsi il gesto con cui Luca stava per chiedergli aiuto.
"Dove andare? Dove andare?", gli domandò.
Forse aveva assistito di nascosto alla lunga scena alla frontiera e aveva capito che Luca era italiano. Così lui, che si presentò subito col nome di Mirak, sfoderò quelle due o tre parole di italiano che aveva imparato a forza di sentirle ripetere al canale della televisione italiana che arrivava anche lì in Montenegro, e su cui era quasi sempre sintonizzato il piccolo schermo in bianco e nero dell'unico bar-albergo-ristoro del suo villaggio.
Luca fece capire a quel ragazzo, che doveva avere più o meno la sua età, ma con la faccia segnata, i denti scuri e le mani nodose come quelle di un vecchio, che aveva bisogno di una stanza per la notte.
"Albergo. Hotel. Hotel. Albergo", continuava a ripetere.
Mirak aveva capito perfettamente che cosa cercava Luca ma con lui faceva finta di non comprendere. E mentiva, cercando di fargli intendere che da quelle parti un albergo proprio non c'era. Quindi fece un gesto a Luca per farlo salire in sella alla sua motoretta. Sarebbero andati a casa sua, intuì l'italiano, lo avrebbero ospitato loro per la notte.
Così fu. E Luca si ritrovò a tavola, in una casa di campagna del Montenegro, confine con l'Albania. Il padre e la madre di Mirak erano contadini e questo dava loro un certo benessere, sebbene la casa fosse solo un grande stanzone al piano terreno: la cucina col tavolo lungo e rettangolare in cui la famiglia di Mirak allestì la cena per quel marziano venuto da un posto che, in linea d'aria, non era poi così distante - pensò Luca - ma che nel tempo sembrava lontano decine e decine di anni. Dalla cucina si usciva su un portico dove la famiglia teneva gli attrezzi, la motoretta del figlio, una panca di legno coi cuscini a fiori sbiaditi, un carretto e ferri vecchi vari. Su un angolo c'era una scala che portava a due ambienti al primo piano, uno infilato dentro l'altro. Il primo era la camera dove dormivano Mirak e sua sorella, che - raccontò la famiglia - si era sposata un anno prima e ora abitava in città. Da lì si entrava nella stanza da letto dei genitori, l'unica con la finestra dai vetri protetti da tendine di terital pronte a dare la scossa appena le si toccava.
Che cosa andava a fare Luca in Albania? gli chiesero alla fine della cena, tirando fuori dalla dispensa la grappa fatta in casa. Un bicchiere, un altro e un altro ancora e a Luca cominciò a girare la testa e a sciogliere la parlantina. L'italiano spiegò alla famiglia montenegrina che aveva tre settimane di vacanza dal lavoro, che voleva vedere un paese che non conosceva, di cui a casa sua si cominciava a parlare allora che il mondo, dopo l'89, si era allargato a posti che prima esistevano solo nei racconti di pochi. Che voleva vedere coi suoi occhi, conoscere persone. Mostrò la sua macchina fotografica. Cercò di dire loro che con quella macchina aveva visitato tante altre nazioni. In Europa, certo, poi infinite volte il grande continente africano, illustrò facendo scorrere il dito su un atlante da viaggio che lo accompagnava sempre nelle sue avventure.
S'illuminò, Luca, nel raccontare che aveva portato a casa i ritratti delle persone a cui aveva stretto la mano, con cui aveva fatto un pezzo di strada. Le immagini delle foreste che aveva attraversato, dei villaggi in cui aveva messo piede, a volte unico uomo bianco, delle donne di cui aveva incrociato gli sguardi, dei bambini che lo avevano seguito e avevano sorriso al suo obiettivo.
Ma gli Albanesi sono gente cattiva, lo voleva convincere la madre di Mirak, portavoce di un odio che divideva da sempre i due popoli.
"No andare! No andare!", si faceva interprete delle angosce della famiglia il figlio.
Dopo ore e ore di ricordi e scoperte, ripagati da racconti di odi, paure e pregiudizi, Luca chiese di andare a dormire. Che la giornata, la discussione con l'ottuso doganiere, poi la cena, il misto di lingue sconosciute tra loro e gesti universali, la grappa, gli avevano all'improvviso tolto le forze.

(continua)