mercoledì 2 settembre 2009

Albania, 1991 (prima parte)

1.

Luca arrivò alla frontiera a piedi. Montenegro-Albania. Fine luglio. Anno 1991.
Già da lontano, mentre si avvicinava con solo un piccolo zaino sulle spalle, la guardia di frontiera lo fissava senza darsene a vedere. Fissava i passi polverosi di quel ragazzo dalla faccia da adolescente, i capelli con le code allungate sulle spalle e i ricci in testa. I tratti di uno di loro, uno slavo, si sarebbe anche potuto dire. Se non fosse stato per quei jeans, quella maglietta con le scritte: no, si vedeva che non era uno di loro, che era un turista. Un turista: non era una figura comune da quelle parti. Di turisti lì non se ne vedano.
Il puntino di Luca si faceva sempre più vicino e Luca sempre più dettagliato. A pochi passi dalla sbarra e dalla baracca dentro cui se ne stava al riparo la guardia il ragazzo tirò fuori dalla tasca la busta spiegazzata con l'invito dell'ambasciata d'Albania che gli avrebbe permesso di entrare nel paese. Lo porse al militare e in qualche modo cercò di farsi capire. Quello cominciò a parlare la sua lingua senza che Luca, ovviamente, potesse capire una sola parola. Solo dalla scuotere della testa di quel uomo dalla faccia rozza e le labbra strette intuì che c'era qualcosa che non andava, che non sarebbe stato così semplice mettere piede oltre la sbarra. L'uomo gli fece capire che per lui quel foglio non valeva niente. Luca aveva un bel da puntare l'indice sul timbro dell'ambasciata, la firma in calce, quelle poche righe che lui non comprendeva ma in cui sapeva che c'era scritto nero su bianco il suo lasciapassare per quel paese che da pochi mesi, in teoria, aveva aperto le frontiere. Niente.
Allora il ragazzo-turista mostrò all'uomo un altro foglietto: c'era scritto il nome della donna dell'ambasciata a Tirana con cui aveva contrattato l’invito in Albania. Se quel militare sordo e cocciuto si fosse convinto a chiamarla per telefono, glielo avrebbe spiegato lei, nella sua lingua, che il ragazzo italiano poteva entrare, che era un turista, per quanto bizzarro fosse quel suo presentarsi a piedi a una frontiera dimenticata dagli uomini, tra i monti, nel cuore di un fin lì monotono pomeriggio estivo.
Ancora niente da fare. Il militare gli face capire che oggi non si poteva telefonare.
Voleva allontanarlo. Magari, se gli avesse reso la cosa difficile, quel ragazzetto avrebbe desistito, sarebbe tornato indietro, ripiegando in fretta dalla sua capricciosa avventura. Magari puntando a una spiaggia del suo paese, una di quelle che lo slavo ogni tanto aveva intravisto in televisione. Che ci voleva poi andare a fare quel giovane spocchioso italiano in Albania?
Luca per quel giorno ebbe certezza che non c'era niente altro da fare. Allora, per la prima volta da quando era arrivato alla frontiera, ruotò lo sguardo, solo quello, alle sue spalle, lungo la strada che aveva percorso per arrivare fin lì, e si convinse a cercare un modo per raggiungere l'ultimo paese che aveva lasciato dietro di sé.
Nessuno. Non una macchina.
Si rassegnò a girare sui suoi tacchi e s'incamminò. Allontanatosi di una decina di passi, però, si voltò di nuovo verso l'uomo che dalla sua guardiola fingeva di non guardarlo più. "Ci vediamo domani!", gli urlò puntandogli contro l'indice.
Fatte due curve, chissà come, chissà da dove, spuntò un tipo con una motoretta scassata che eruttava fumo nero e scoppi sincopati. Il ragazzo che la guidava non aspettò per fermarsi il gesto con cui Luca stava per chiedergli aiuto.
"Dove andare? Dove andare?", gli domandò.
Forse aveva assistito di nascosto alla lunga scena alla frontiera e aveva capito che Luca era italiano. Così lui, che si presentò subito col nome di Mirak, sfoderò quelle due o tre parole di italiano che aveva imparato a forza di sentirle ripetere al canale della televisione italiana che arrivava anche lì in Montenegro, e su cui era quasi sempre sintonizzato il piccolo schermo in bianco e nero dell'unico bar-albergo-ristoro del suo villaggio.
Luca fece capire a quel ragazzo, che doveva avere più o meno la sua età, ma con la faccia segnata, i denti scuri e le mani nodose come quelle di un vecchio, che aveva bisogno di una stanza per la notte.
"Albergo. Hotel. Hotel. Albergo", continuava a ripetere.
Mirak aveva capito perfettamente che cosa cercava Luca ma con lui faceva finta di non comprendere. E mentiva, cercando di fargli intendere che da quelle parti un albergo proprio non c'era. Quindi fece un gesto a Luca per farlo salire in sella alla sua motoretta. Sarebbero andati a casa sua, intuì l'italiano, lo avrebbero ospitato loro per la notte.
Così fu. E Luca si ritrovò a tavola, in una casa di campagna del Montenegro, confine con l'Albania. Il padre e la madre di Mirak erano contadini e questo dava loro un certo benessere, sebbene la casa fosse solo un grande stanzone al piano terreno: la cucina col tavolo lungo e rettangolare in cui la famiglia di Mirak allestì la cena per quel marziano venuto da un posto che, in linea d'aria, non era poi così distante - pensò Luca - ma che nel tempo sembrava lontano decine e decine di anni. Dalla cucina si usciva su un portico dove la famiglia teneva gli attrezzi, la motoretta del figlio, una panca di legno coi cuscini a fiori sbiaditi, un carretto e ferri vecchi vari. Su un angolo c'era una scala che portava a due ambienti al primo piano, uno infilato dentro l'altro. Il primo era la camera dove dormivano Mirak e sua sorella, che - raccontò la famiglia - si era sposata un anno prima e ora abitava in città. Da lì si entrava nella stanza da letto dei genitori, l'unica con la finestra dai vetri protetti da tendine di terital pronte a dare la scossa appena le si toccava.
Che cosa andava a fare Luca in Albania? gli chiesero alla fine della cena, tirando fuori dalla dispensa la grappa fatta in casa. Un bicchiere, un altro e un altro ancora e a Luca cominciò a girare la testa e a sciogliere la parlantina. L'italiano spiegò alla famiglia montenegrina che aveva tre settimane di vacanza dal lavoro, che voleva vedere un paese che non conosceva, di cui a casa sua si cominciava a parlare allora che il mondo, dopo l'89, si era allargato a posti che prima esistevano solo nei racconti di pochi. Che voleva vedere coi suoi occhi, conoscere persone. Mostrò la sua macchina fotografica. Cercò di dire loro che con quella macchina aveva visitato tante altre nazioni. In Europa, certo, poi infinite volte il grande continente africano, illustrò facendo scorrere il dito su un atlante da viaggio che lo accompagnava sempre nelle sue avventure.
S'illuminò, Luca, nel raccontare che aveva portato a casa i ritratti delle persone a cui aveva stretto la mano, con cui aveva fatto un pezzo di strada. Le immagini delle foreste che aveva attraversato, dei villaggi in cui aveva messo piede, a volte unico uomo bianco, delle donne di cui aveva incrociato gli sguardi, dei bambini che lo avevano seguito e avevano sorriso al suo obiettivo.
Ma gli Albanesi sono gente cattiva, lo voleva convincere la madre di Mirak, portavoce di un odio che divideva da sempre i due popoli.
"No andare! No andare!", si faceva interprete delle angosce della famiglia il figlio.
Dopo ore e ore di ricordi e scoperte, ripagati da racconti di odi, paure e pregiudizi, Luca chiese di andare a dormire. Che la giornata, la discussione con l'ottuso doganiere, poi la cena, il misto di lingue sconosciute tra loro e gesti universali, la grappa, gli avevano all'improvviso tolto le forze.

(continua)

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