venerdì 18 settembre 2009

Albania, 1991 (terza parte)




3.


Guardo fuori dal bar, su uno degli incroci più scontati del centro della mia città, e mi pare di essere una turista. Non c'è il sole. Ha piovuto nelle prime ore del mattino e forse pioverà anche più tardi. Eppure c'è una luce bellissima, che scandisce i dettagli di quella architettura che dovrei conoscere come le mie tasche e che ora mi pare di vedere per la prima volta. L'insegna verde di un negozio antico, lì fino a che ero bambina e ora sostituito da una griffe di moda. I tavolini del bar. Il pavimento di acciottolato, i muri rossi dei palazzi. Le bici. Anche la gente non mi sembra quella della mia città. Per una volta non conosco nessuno. Finalmente. Mi sento all'improvviso lontana. In vacanza o addirittura in un altro mondo.

Ora di pranzo e vedo, fuori dal bar, i passanti che vanno e vengono con gli impermeabili colorati infilati provvisoriamente sulle giacche, le macchine fotografiche, il naso per aria a rintracciare gli archi dei palazzi medioevali.

La ragazza del bar ci chiede che cosa vogliamo mangiare. Ha un accento straniero.

"E' slava", mi dice Luca.

Tanto per stare in tema col suo racconto.

La ragazza è alta e magra, bella e giovane. Ma quel viso spigoloso, la pelle delle guance appena segnate da un po' di couperose e gli occhi con l'ombra di qualche piega che presto verrà a spegnerli un po', nell'insieme fanno già intuire come sarà tra trent'anni, da anziana.

Luca ha la stessa faccia del ragazzo della foto in Albania. Diciotto anni di più, però, i capelli grigi e meno ricci, ma sempre lunghi a puntare le spalle.

Apre il computer e mostra le foto di Durazzo. Di quel giorno in cui la prima o forse la seconda nave carica stipata di Albanesi partì per le coste adriatiche dell'Italia.

Io ascolto e immagino lo sbarco di quei clandestini ai primi di un caldissimo agosto del 1991.


Una volta messo finalmente piede in Albania, Luca puntò dritto verso Tirana. La stanza all'Hotel Centrale della capitale costò più di quanto avrebbe immaginato. L'hotel era ancora quello usato dal regime ai tempi d'oro, per ospitare la nomenklatura e i diplomatici che veniva da fuori, per dare un’illusione di benessere, di agiatezza che fuori di lì non si sarebbe rintracciata in nessun altra parte della città, tra la gente comune. Che quella storia fosse finita lo raccontavano anche i muri ingialliti della stanza che assegnarono a quel turista inatteso, unico ospite dell'albergo. Poi lo raccontavano le moquette solevate ai bordi, le lampadine che mancavano in abbondanza dai grandi lampadari di cristallo, le divise ingrigite del personale rimasto, scontroso e svogliato.

Arrivato all'albergo che era già quasi sera, Luca chiese da mangiare, un panino, qualsiasi cosa. Gli fu risposto che era finito tutto, che le cucine erano chiuse da mesi: prima si erano vuotato le dispense, poi era stato anche licenziato il personale. Inutile di quei tempi sostenere spese per servizi che nessuno avrebbe richiesto.

Luca decise si sedersi comunque al bar dell’albergo: una birra in qualche modo gliela rimediarono e bevendo un’idea gli sarebbe venuta. Dopo un po’ che se ne stava lì a puntare l’orlo del bicchiere, si accorso che in quello stanzone sterminato, manie di grandezza di un regime che si pensava eterno, un gruppo di ragazzi albanesi era seduto all’altro lato del bancone, bevendo birra e mangiando toast. Luca si avvicinò, per chiedere se poteva averne uno.


La ragazza slava ci porta i nostri piatti. Luca allontana il computer che rimane accesso su una foto dall’aria un po’ stropicciata: c’è lui, magro e più giovane. È sul tetto di una casa e tiene il braccio attorno alle spalle di un uomo più basso, con la faccia segnata: sembra più vecchio, ma forse non lo è poi più di tanto. Sarà lui a farlo partire una mattina di gran fretta da Tirana verso Durazzo, su un treno stracarico di gente; Luca a guardarsi attorno per cerca di capire dove andrà tutta quella gente, perché in una paese che sembra essere rimasto immobile per secoli è come se tutti quanti, un giorno, all’improvviso, si fossero svegliati nello stesso momento.


(Continua)

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