venerdì 16 gennaio 2009

Capitolo 10.


10.


L’addio è stato come in un film: aeroporto, occhiali neri per nascondere le lacrime (io), sigarette fumate una dietro l’altra, nervosamente, prima di salire sull’aereo (lui).
“Non ci credi che tornerò, eh?”, mi aveva detto la sera prima.
“Mi mancherai”, aveva aggiunto più tardi.
No, io non riuscivo a crederci. Il destino va assecondato, dovevo chiamarlo a me pensando positivo. Ma non ce la facevo.
Sam era partito ed era stato, ancora una volta, come in un film di Hollywood: l’avevo saluto all’aeroporto, con lui fino all’ultimo secondo, e non ero riuscita a trattenere le lacrime. Quando ormai non c’era più altro da fare per lui che imbarcarsi, avevo preso la scala mobile per scendere al piano di sotto e riprendere la macchina. Era stato lì, in fondo all’ultimo gradino, che avevo sentito come se qualcosa, qualcuno mi stesse chiamando. Alzando gli occhi, vidi che era lui a seguirmi con lo sguardo: con una mano mi mandava un bacio. Io, invece, senza riuscire a fare un gesto me ne stavo andando. Per poi rincorrerlo cinque minuti dopo.
“I love you”, gli dissi baciandolo.
“Take care”, mi rispose.
Tutto è finito così. E tutto è tornato uguale a quello di sempre. Con in più una tristezza che pensavo che non sarei mai riuscita a contenere, con la paura che mi potesse soffocare. Bastava un niente, una parola detta male, o che a me sembrava tale, per colmare la misura e far tracimare il vaso delle lacrime. Dentro solo un dolore che spaccava in due. Il cervello sempre in moto e il pensiero che batteva costantemente dove la mente doleva.
“Stop thinking, Francesca, your mind is noisy”, mi diceva a volte Sam nel buio della notte.
In quei giorni non c’era verso di fermare il mio cervello. Ero io che avevo sbagliato, continuava a ripetermi una voce nella mia mente, ero io che l’avevo fatto fuggire con le mie lacrime, con le mie richiese d’amore, ero io che non ero stata capace di essere lieve, di regalargli leggerezza piuttosto che un altro peso da caricarsi sulle spalle. Ero io che oscillavo continuamente dal voler essere una persona libera, sicura di sé, e la realtà fatta invece di mille paure, insicurezze. Passavo in rassegna gli amici con un’unica domanda fissa: pensi che tornerà?
Mi ero raccontata una favola. Non era l’amore quello che avevo incontrato quel giorno, per caso, non era il principe azzurro, il cowboy dei miei sogni di bambina. Non era una favola a lieto fine, bensì un incubo. I sogni, quelli veri, quelli che si fanno di notte ad occhi chiusi, dicono sempre la verità. E così era stato anche per quello che avevo fatto io quella notte. Avevo sognato che Sam mi aveva portata con sé in America a conoscere ciò che era rimasto della sua famiglia, cioè una coppia di vecchi zii. Perfetto, no?
Era un sogno che diventava realtà, mi dicevo io nel sonno. Ma non era così. L’America non era poi questo gran posto: guardandomi attorno mi pareva di vedere un paesaggio non tanto diverso dagli Appennini, da quelle montagnuzze monotone e a me così note da essere diventate noiose. Anche gli zii avevano un che di squallido, ordinario.
“Vieni con me, stai con me e viaggiamo insieme per qualche mese”, mi chiedeva Sam nel sogno. Fantastico, no? Era sempre quello che avevo sperato. Invece c’era qualcosa che non andava.
“Da gennaio”, devo avergli risposto nel mio film notturno, rimandando di qualche mese quello che fino a poco tempo prima sembrava un miraggio per raggiungere il quale avrei dato chissà cosa.
Altri segnali di disagio si affacciavano alla soglia del mio inconscio: un’ansia di fondo e la sensazione di non potermi fidare completamente di lui. Che cosa era successo? Era come se il mio sogno ad occhi chiusi, persino quello, non riuscisse ad essere bello, perfetto e dorato come un sogno vero dovrebbe essere. Era compromesso, incrinato: c’era qualcosa che non filava. Chi ne aveva scritto la sceneggiatura? Certo, uno che di sogni se ne intendeva poco. E cosa voleva dirmi poi quella visione imperfetta? Che l’America, quella metaforica in cui avevo identificato le mie ambizioni, le mie mete irraggiungibili, non era quell’America lontana, quella dei film western. Che l'America la dovevo cercare dentro di me.
Sam tre mesi prima si era presentato ai miei occhi bello da impazzire: parlava un’altra lingua, veniva da un altro mondo ed aveva girato per luoghi lontani. Avevo fatto due conti e mi ci era voluto solo un attimo per tradurre tutto questo nella visione di un cowboy a cavallo. Bastava montare sulla sua sella, aggrapparsi alla sua schiena (che era bella e forte; come mi piaceva di notte stringermela contro il corpo) e fuggire via con lui, verso l’America, quella del mito.
Presto mi ero accorta però che non era così. Ma non riuscivo a scendere da quella sella. Non volevo. Se avessi lasciato la presa che ne sarebbe stato di me? Mi sarei ritrovata nel mezzo del niente, perduta. E poi fa male, si sa, cascare da cavallo, ci si può rompere l’osso del collo.
Sam non era un pioniere mitologico. Era un uomo, semplice, nudo, uno che aveva paura. Era malato e dimenava la sua malattia e il dolore che gli procurava come una sciabola. Scagliava fendenti che suonavano come ricatti. Impuntava la lama della sua sofferenza dentro la carne di chi gli stava vicino. Non sapeva fare altro: non aveva altro da condividere con una donna se non il suo dolore pericoloso.Io avevo la testa piena di pensieri contradditori: da una parte la lucidità di tutto questo, ma dall’altra l’odore del sangue mi attraeva.

1 commento:

Anonimo ha detto...

"Chi ne aveva scritto la sceneggiatura? Certo, uno che di sogni se ne intendeva poco."

"Impuntava la lama della sua sofferenza dentro la carne di chi gli stava vicino."

BELLISSIME