lunedì 5 aprile 2010
lunedì 22 marzo 2010
conversazioni in pillole
conversazione #1
"tu che mi conosci....io ragiono con la testa di un maschio o sono una femmina talmente evoluta da essere oltre le categorie di genere?"
"sei un sincretismo"
poco prima le aveva detto: "sei l'unica donna a conoscere il senso del tragico"
conversazione #2
"ma io perchè perdo il mio tempo con un kretino di bagnino come te?"
"xchè mi lecco il dito, miro il vento e ti dico il tempo di domani: garbino!"
giorni prima aveva detto: "la fragilità è come una finestra socchiusa: se sei curioso ti aiuta a dare una sbirciatina dentro... mi piace un bel po'".
giovedì 31 dicembre 2009
invito di capodanno
Dopo una visita calma e concentrata, Firenze ci offre un buon pranzo a ragionevole prezzo (siamo sempre agli inganni) e la visita al palco di San Silvestro in gemellaggio.
Alle prime ombre della sera si riprende il treno (sempre un locale) e (col dovuto ritardo) si torna a Bologna intravedendo l'alta velocità.
Una volta a Bologna, scansando i fortunati che hanno il biglietto per la festa "alta velocità", ci fiondiamo al palazzetto Biancolelli per la tombola di fine anno con brindisi e premi adeguati alla serata.
Poi, siamo in dirittura di arrivo, se ci vogliamo bene ci siamo simpatici a vicenda, tu ti metti le mutandine rosse e io te le tolgo...
martedì 1 dicembre 2009
welcome, ma non aprire quella porta
“Sai? Vuole attraversare la Manica a nuoto per raggiungere una ragazza. Io non ho neanche attraversato la strada per fermarti”.
Vincent Lindon è Simon e mi piace un casino: è massiccio, ha la pancia, è orso. Ha chiuso una porta, per non vedere più cosa c’è al di là.
Calais è un inferno, un campo di clandestini a cielo aperto. Aspettano, aspettano mesi e mesi per andare di là, in Inghilterra. Ci vogliono 500 euro e un sacchetto di plastica: serve da chiuderci dentro la testa quando, nascosti in un camion, si rischia di essere scoperti da un micidiale strumento che la polizia usa per rilevare dal respiro la presenza di clandestini.
“Welcome” di Philippe Lioret è un film semplice, prevedibile come una tragedia greca. E ti lascia appeso al respiro.
È un film semplice, che racconta una storia complicata come quella dell’immigrazione clandestina, mossa, nella storia dei singoli, da motivazioni che posso essere più semplici di quanto non si immagini: non la guerra del paese da cui viene Bilal, l’Iraq, non la miseria, ma l’amore per una ragazza. Bilal per lei sfida la Manica e le polizie di mezzo mondo.
domenica 8 novembre 2009
Emmaus, andata e ritrono
Ho chiuso l’ultima pagina dell’ultimo Baricco e non so che dire. Avevo amato Castelli di rabbia, Oceano Mare e Novecento. Quelli dopo, no. Però avevo continuato a seguire il suo pensiero sui giornali, perchè intelligente. Anche se attaccato e attaccabilissimo (vedi l’uscita della primavera scorsa sui teatri e i finanziamenti alla cultura).
Emmaus è un Baricco che non mi aspettavo, quindi tanto di cappello: gli ultimi erano diventati un clichè, un marcio di fabbrica. Di ottima fattura, certo, ma di scarsa emozione.
Mille anni fa lo sentii a una conferenza, ospite della facoltà di Scienze Politiche che chiamava artisti a parlare del lavoro dell’arte, della creatività. Lui disse una cosa che mi è sempre rimasta in testa, che mi torna in testa tutte le volte che entro in libreria a scegliere un libro nuovo da leggere. “Se comprate un mio libro – disse – comprate un biglietto per un viaggio”. Lo prometteva a un tale dal pubblico che gli aveva fatto una domanda, raccontandogli che un giorno aveva finto di andare a lavorare – in fabbrica, mi pare – poi invece aveva chiamato il suo caporeparto per darsi malato, aveva aspettato nel bar difronte a casa che moglie e figlia andassero a scuola e al lavoro per tornarsene sui suoi passi, mettersi sotto le coperte e leggere un libro di Baricco, non ricordo quale.
Ecco, forse del viaggio di cui Baricco mi ha fatto da guida con Emmaus semplicemente mi frega poco.
Ci sono quattro ragazzi, sedicenni o giù di lì. Cresciuti nella fede, perchè così hanno voluto le famiglie, perchè così la vita ha garanzia di essere più semplice: definita, privata del superfluo, del complesso, delegata a un altrove. Poi c’è Andre, ragazza dal nome da maschio (Andrea, in realtà), cresciuta in un mondo che di definito non ha niente, ma non per questo è più felice, più libera.
Tutto il libro – scritto da Dio, va detto – è attraversato dal senso del peccato. Risultato: mi innervosisce. Attualissimo, se lo leggiamo in parallelo con le cronache di questi giorni (travestiti, droga, sesso). Ma, sebbene casuale e immagino non ruffiana, anche questa coincidenza mi infastidisce anch’essa.
Poi è un viaggio cupo. Ecco cos’è: cupo e dal finale rassegnato. Non erano così i viaggi-libri di Baricco che ho amato: immaginifici.
Insomma, non so cosa sia successo a Baricco, perchè abbia scritto un romanzo così. Forse vale la pena leggerlo comunque, ma alla 139ma e ultima pagina del viaggio-libro sono contenta di essere tornata a casa.
domenica 25 ottobre 2009
Aspetta, Maria!
Maria deve aspettare. E l’attesa è la cosa che le è meno congeniale. Del resto, “tu sei una che ha sempre fatto tutto da sola”, le dice un amico. E se una fa da sola, decide lei come e quando.
Maria guarda l’amico e un po’ non capisce. Fa da sola perchè fa da sola, non per scelta, non per mancanza. Perchè le è congeniale, quello sì.
Maria aspetta un figlio, ma poco portata com’è all’attesa, lo partorisce di sei mesi. E allora deve imparare ad aspettare che il figlio, anzi la figlia, nasca una seconda volta.
Maria, a dispetto del nome, non è una che s’immola sull’altare della maternità. “Alla mia età non si fanno figli, non ci si innamora”, sostiene tra le lacrime, una tazza di tè e la prima ecografia. Lei, invece, c’è cascata in tutte e due le reti. Si è innamorata di Pietro e sostiene che non potrà mai più fare senza di baciargli il collo. Ma basta aspettare, anche lì, e Pietro “si scioglie nel fango di una pozzanghera”. Di Pietro è rimasta incinta, e si tiene il figlio anche se Pietro “non se la sente di fare un figlio perchè ne ha già uno”.
Sono entrata al cinema per “Lo spazio bianco” di Francesca Comencini molto prevenuta. Mi avevano detto che il film era bello. Però un film italiano..... su una quarantenne che fa un figlio......poi quell’orrida recensione di Escobar sul Domenicale del Sole24Ore di oggi, che pur parlandone bene, ammoscerebbe l’entusiasmo al cinefilo più bulimico: tutta una questione d’amore, aulica, retorica. Invece Francesca è la seconda Comencini che mi sorprende questa settimana. Maria/Margherita Buy è un personaggio riuscito perchè è laica, perchè al grande medico che le parla di attesa e speranza quando le deve spiegare che sua figlia nell’incubatrice è in pericolo di vita, lei chiede di fare il suo mestiere, di usare il suo linguaggio, che è il linguaggio scientifico. Di speranza e attesa parlino i preti, che fanno quel mestiere lì.
Maria deve aspettare la seconda nascita di sua figlia (o la morte, “ma mica posso andare in giro a dire che sto aspettando la morte di mia figlia”), ma rimane Maria: i suoi film, i suoi libri, il sesso, il suo mestiere di insegnante. La fortuna, forse, è quella di essere una madre con le rughe, senza la retorica della maternità. Viva, soprattutto se è un film italiano a ascegliere questa strada.
Maria va al cinema da sola. Io da sola ora vado a vedere “Lebanon”, tutta un’altra storia. Poi vi dirò.
mercoledì 21 ottobre 2009
Molla, Manfred!
È la paura, la fregatura di tutto. Poi l’orgoglio, dietro cui si nasconde la paura, ovvio. E il risentimento: quello che è stato (la madre che scappa con un americano e li lascia lì, tre figli soli con il padre), attraverso cui Manfred rilegge il rapporto con le altre donne della sua vita.
Manfred è un montanaro. Duro come la pietra. Parla poco e se parla taglia, dà colpi d’accetta. Marina che – lo dice il nome – con quei monti non c’entra niente, c’arriva con un figlio appena nato. Un figlio che è venuto, cercato ma senza tanta convinzione, forse. Marina è una come noi, come me: non è venuta al mondo solo per fare figli, come le nostre madri. Allora fa fatica, si sente inadeguata, ostaggio di quel bimbo che piange sempre.
I due si incontrano. Si scontrano. Poi si rincontrano quindici anni dopo. Quando mollano, quando Manfred molla. Quando la smette di tenere duro, di difendere chissà cosa. No, si sa cosa: la sua paura di essere tradito, mollato un’altra volta. Di farsi male. Salvo poi farsi male da solo, più male ancora.
È un libro bellissimo quello di Cristina Comencini. S’intitola “Quando la notte”. Anche la copertina è bellissima: due mani nodose su una schiena nuda di donna. È una storia d’amore, è vero. Come se leggere storie d’amore implicasse la necessità di chiedere scusa agli altri che fingono di non leggerle. (È la paura la fregatura di tutto, ricordi?).
Ci sono lunghi periodi in cui divoro libri, ed altri in cui ciò non accade: mi distrae dai miei pensieri. Oppure non trovo libri che entrano in sintonia coi miei pensieri. “Quando la notte” l’ha fatto: all’inizio con poca convinzione, alla fine li ha travolti, ci si sono rispecchiati.
È un piccolo romanzo dalla scrittura secca. Pochi dialoghi; lo spazio è soprattutto per quello che i protagonisti si dicono, ma non dicono. Non è melenso, magari struggente. È un corpo a corpo. Una battaglia, come ogni costruzione d’amore. Non l’amore che costruisce una vita, un futuro, una famiglia. Un amore più sublime, per niente ideale, anzi carnale, ma che rimane lì, capace di passeggiarti a fianco per quindici anni.
“Credo di avere scritto un libro romantico – racconta Cristina Comencini in una intervista – anche se non in senso classico. C’è un ritorno al primario, all’istinto, all’idea che l’amore è un campo di battaglia”. Ancora: “L’amore tra un uomo e una donna non è dolce. Lo si conquista mediante l’attraversamento di una grande rabbia di genere. L’amore non è dolce, almeno non lo è all’inizio”.
A me son sempre piaciuti un sacco i campi di battaglia....
lunedì 28 settembre 2009
Albania, 1991 (fine)
4.
Uomini aggrappati alle funi, nell’intento di salire su una nave già stracarica di umani.
Di tanto in tanto un tonfo: poteva succedere che una fune si spezzasse e loro, gli umani, si buttassero in mare per non sfracellarsi sulle pareti arrugginite della nave.
Una bolgia in mare, una bolgia imbarcata, una bolgia sulla pensilina del porto. Gente che urla a gente, gente che saluta altra gente, gente che piange per gente che sta per partire verso un dove che non si sa.
Tra i grappoli di umani, stretti come scimmie a quelle corde, fisso l’occhio su un uomo che si arrampica con le mani e coi piedi, vestito di un solo paio di slip blu elettrico. Sarebbe arrivato in Italia, in mutande. Così si sarebbe presentato al nuovo mondo, alla nuova vita.
Segni di fame sulle facce, al limite della scarnificazione i corpi.
Una donna incinta penzola da una corda che da un palo la deve portare alla carretta: anche lei ci prova. È l’immagine più disperata.
“Nello scattare quelle foto – racconta Luca – avevo messo piede non so come su una piccola piattaforma, una zattera che a un certo punto si staccò dalla banchina”.
Luca scatta, scatta rullini su rullini. Alcuni arriveranno in Italia, una settimana dopo, mentre i giornali raccontavano già di questo carico di disperati, poi rinchiusi nello stadio di Bari. La cronaca diventa storia.
Il racconto, storia privata.
(Ringrazio Luca per avermi permesso di ‘rubargli’ questo racconto)
venerdì 18 settembre 2009
Albania, 1991 (terza parte)
3.
Guardo fuori dal bar, su uno degli incroci più scontati del centro della mia città, e mi pare di essere una turista. Non c'è il sole. Ha piovuto nelle prime ore del mattino e forse pioverà anche più tardi. Eppure c'è una luce bellissima, che scandisce i dettagli di quella architettura che dovrei conoscere come le mie tasche e che ora mi pare di vedere per la prima volta. L'insegna verde di un negozio antico, lì fino a che ero bambina e ora sostituito da una griffe di moda. I tavolini del bar. Il pavimento di acciottolato, i muri rossi dei palazzi. Le bici. Anche la gente non mi sembra quella della mia città. Per una volta non conosco nessuno. Finalmente. Mi sento all'improvviso lontana. In vacanza o addirittura in un altro mondo.
Ora di pranzo e vedo, fuori dal bar, i passanti che vanno e vengono con gli impermeabili colorati infilati provvisoriamente sulle giacche, le macchine fotografiche, il naso per aria a rintracciare gli archi dei palazzi medioevali.
La ragazza del bar ci chiede che cosa vogliamo mangiare. Ha un accento straniero.
"E' slava", mi dice Luca.
Tanto per stare in tema col suo racconto.
La ragazza è alta e magra, bella e giovane. Ma quel viso spigoloso, la pelle delle guance appena segnate da un po' di couperose e gli occhi con l'ombra di qualche piega che presto verrà a spegnerli un po', nell'insieme fanno già intuire come sarà tra trent'anni, da anziana.
Luca ha la stessa faccia del ragazzo della foto in Albania. Diciotto anni di più, però, i capelli grigi e meno ricci, ma sempre lunghi a puntare le spalle.
Apre il computer e mostra le foto di Durazzo. Di quel giorno in cui la prima o forse la seconda nave carica stipata di Albanesi partì per le coste adriatiche dell'Italia.
Io ascolto e immagino lo sbarco di quei clandestini ai primi di un caldissimo agosto del 1991.
Una volta messo finalmente piede in Albania, Luca puntò dritto verso Tirana. La stanza all'Hotel Centrale della capitale costò più di quanto avrebbe immaginato. L'hotel era ancora quello usato dal regime ai tempi d'oro, per ospitare la nomenklatura e i diplomatici che veniva da fuori, per dare un’illusione di benessere, di agiatezza che fuori di lì non si sarebbe rintracciata in nessun altra parte della città, tra la gente comune. Che quella storia fosse finita lo raccontavano anche i muri ingialliti della stanza che assegnarono a quel turista inatteso, unico ospite dell'albergo. Poi lo raccontavano le moquette solevate ai bordi, le lampadine che mancavano in abbondanza dai grandi lampadari di cristallo, le divise ingrigite del personale rimasto, scontroso e svogliato.
Arrivato all'albergo che era già quasi sera, Luca chiese da mangiare, un panino, qualsiasi cosa. Gli fu risposto che era finito tutto, che le cucine erano chiuse da mesi: prima si erano vuotato le dispense, poi era stato anche licenziato il personale. Inutile di quei tempi sostenere spese per servizi che nessuno avrebbe richiesto.
Luca decise si sedersi comunque al bar dell’albergo: una birra in qualche modo gliela rimediarono e bevendo un’idea gli sarebbe venuta. Dopo un po’ che se ne stava lì a puntare l’orlo del bicchiere, si accorso che in quello stanzone sterminato, manie di grandezza di un regime che si pensava eterno, un gruppo di ragazzi albanesi era seduto all’altro lato del bancone, bevendo birra e mangiando toast. Luca si avvicinò, per chiedere se poteva averne uno.
La ragazza slava ci porta i nostri piatti. Luca allontana il computer che rimane accesso su una foto dall’aria un po’ stropicciata: c’è lui, magro e più giovane. È sul tetto di una casa e tiene il braccio attorno alle spalle di un uomo più basso, con la faccia segnata: sembra più vecchio, ma forse non lo è poi più di tanto. Sarà lui a farlo partire una mattina di gran fretta da Tirana verso Durazzo, su un treno stracarico di gente; Luca a guardarsi attorno per cerca di capire dove andrà tutta quella gente, perché in una paese che sembra essere rimasto immobile per secoli è come se tutti quanti, un giorno, all’improvviso, si fossero svegliati nello stesso momento.
(Continua)
giovedì 3 settembre 2009
Albania, 1991 (seconda parte)
(continua)
mercoledì 2 settembre 2009
Albania, 1991 (prima parte)
Luca arrivò alla frontiera a piedi. Montenegro-Albania. Fine luglio. Anno 1991.
Già da lontano, mentre si avvicinava con solo un piccolo zaino sulle spalle, la guardia di frontiera lo fissava senza darsene a vedere. Fissava i passi polverosi di quel ragazzo dalla faccia da adolescente, i capelli con le code allungate sulle spalle e i ricci in testa. I tratti di uno di loro, uno slavo, si sarebbe anche potuto dire. Se non fosse stato per quei jeans, quella maglietta con le scritte: no, si vedeva che non era uno di loro, che era un turista. Un turista: non era una figura comune da quelle parti. Di turisti lì non se ne vedano.
Il puntino di Luca si faceva sempre più vicino e Luca sempre più dettagliato. A pochi passi dalla sbarra e dalla baracca dentro cui se ne stava al riparo la guardia il ragazzo tirò fuori dalla tasca la busta spiegazzata con l'invito dell'ambasciata d'Albania che gli avrebbe permesso di entrare nel paese. Lo porse al militare e in qualche modo cercò di farsi capire. Quello cominciò a parlare la sua lingua senza che Luca, ovviamente, potesse capire una sola parola. Solo dalla scuotere della testa di quel uomo dalla faccia rozza e le labbra strette intuì che c'era qualcosa che non andava, che non sarebbe stato così semplice mettere piede oltre la sbarra. L'uomo gli fece capire che per lui quel foglio non valeva niente. Luca aveva un bel da puntare l'indice sul timbro dell'ambasciata, la firma in calce, quelle poche righe che lui non comprendeva ma in cui sapeva che c'era scritto nero su bianco il suo lasciapassare per quel paese che da pochi mesi, in teoria, aveva aperto le frontiere. Niente.
Allora il ragazzo-turista mostrò all'uomo un altro foglietto: c'era scritto il nome della donna dell'ambasciata a Tirana con cui aveva contrattato l’invito in Albania. Se quel militare sordo e cocciuto si fosse convinto a chiamarla per telefono, glielo avrebbe spiegato lei, nella sua lingua, che il ragazzo italiano poteva entrare, che era un turista, per quanto bizzarro fosse quel suo presentarsi a piedi a una frontiera dimenticata dagli uomini, tra i monti, nel cuore di un fin lì monotono pomeriggio estivo.
Ancora niente da fare. Il militare gli face capire che oggi non si poteva telefonare.
Voleva allontanarlo. Magari, se gli avesse reso la cosa difficile, quel ragazzetto avrebbe desistito, sarebbe tornato indietro, ripiegando in fretta dalla sua capricciosa avventura. Magari puntando a una spiaggia del suo paese, una di quelle che lo slavo ogni tanto aveva intravisto in televisione. Che ci voleva poi andare a fare quel giovane spocchioso italiano in Albania?
Luca per quel giorno ebbe certezza che non c'era niente altro da fare. Allora, per la prima volta da quando era arrivato alla frontiera, ruotò lo sguardo, solo quello, alle sue spalle, lungo la strada che aveva percorso per arrivare fin lì, e si convinse a cercare un modo per raggiungere l'ultimo paese che aveva lasciato dietro di sé.
Nessuno. Non una macchina.
Si rassegnò a girare sui suoi tacchi e s'incamminò. Allontanatosi di una decina di passi, però, si voltò di nuovo verso l'uomo che dalla sua guardiola fingeva di non guardarlo più. "Ci vediamo domani!", gli urlò puntandogli contro l'indice.
Fatte due curve, chissà come, chissà da dove, spuntò un tipo con una motoretta scassata che eruttava fumo nero e scoppi sincopati. Il ragazzo che la guidava non aspettò per fermarsi il gesto con cui Luca stava per chiedergli aiuto.
"Dove andare? Dove andare?", gli domandò.
Forse aveva assistito di nascosto alla lunga scena alla frontiera e aveva capito che Luca era italiano. Così lui, che si presentò subito col nome di Mirak, sfoderò quelle due o tre parole di italiano che aveva imparato a forza di sentirle ripetere al canale della televisione italiana che arrivava anche lì in Montenegro, e su cui era quasi sempre sintonizzato il piccolo schermo in bianco e nero dell'unico bar-albergo-ristoro del suo villaggio.
Luca fece capire a quel ragazzo, che doveva avere più o meno la sua età, ma con la faccia segnata, i denti scuri e le mani nodose come quelle di un vecchio, che aveva bisogno di una stanza per la notte.
"Albergo. Hotel. Hotel. Albergo", continuava a ripetere.
Mirak aveva capito perfettamente che cosa cercava Luca ma con lui faceva finta di non comprendere. E mentiva, cercando di fargli intendere che da quelle parti un albergo proprio non c'era. Quindi fece un gesto a Luca per farlo salire in sella alla sua motoretta. Sarebbero andati a casa sua, intuì l'italiano, lo avrebbero ospitato loro per la notte.
Così fu. E Luca si ritrovò a tavola, in una casa di campagna del Montenegro, confine con l'Albania. Il padre e la madre di Mirak erano contadini e questo dava loro un certo benessere, sebbene la casa fosse solo un grande stanzone al piano terreno: la cucina col tavolo lungo e rettangolare in cui la famiglia di Mirak allestì la cena per quel marziano venuto da un posto che, in linea d'aria, non era poi così distante - pensò Luca - ma che nel tempo sembrava lontano decine e decine di anni. Dalla cucina si usciva su un portico dove la famiglia teneva gli attrezzi, la motoretta del figlio, una panca di legno coi cuscini a fiori sbiaditi, un carretto e ferri vecchi vari. Su un angolo c'era una scala che portava a due ambienti al primo piano, uno infilato dentro l'altro. Il primo era la camera dove dormivano Mirak e sua sorella, che - raccontò la famiglia - si era sposata un anno prima e ora abitava in città. Da lì si entrava nella stanza da letto dei genitori, l'unica con la finestra dai vetri protetti da tendine di terital pronte a dare la scossa appena le si toccava.
Che cosa andava a fare Luca in Albania? gli chiesero alla fine della cena, tirando fuori dalla dispensa la grappa fatta in casa. Un bicchiere, un altro e un altro ancora e a Luca cominciò a girare la testa e a sciogliere la parlantina. L'italiano spiegò alla famiglia montenegrina che aveva tre settimane di vacanza dal lavoro, che voleva vedere un paese che non conosceva, di cui a casa sua si cominciava a parlare allora che il mondo, dopo l'89, si era allargato a posti che prima esistevano solo nei racconti di pochi. Che voleva vedere coi suoi occhi, conoscere persone. Mostrò la sua macchina fotografica. Cercò di dire loro che con quella macchina aveva visitato tante altre nazioni. In Europa, certo, poi infinite volte il grande continente africano, illustrò facendo scorrere il dito su un atlante da viaggio che lo accompagnava sempre nelle sue avventure.
S'illuminò, Luca, nel raccontare che aveva portato a casa i ritratti delle persone a cui aveva stretto la mano, con cui aveva fatto un pezzo di strada. Le immagini delle foreste che aveva attraversato, dei villaggi in cui aveva messo piede, a volte unico uomo bianco, delle donne di cui aveva incrociato gli sguardi, dei bambini che lo avevano seguito e avevano sorriso al suo obiettivo.
Ma gli Albanesi sono gente cattiva, lo voleva convincere la madre di Mirak, portavoce di un odio che divideva da sempre i due popoli.
"No andare! No andare!", si faceva interprete delle angosce della famiglia il figlio.
Dopo ore e ore di ricordi e scoperte, ripagati da racconti di odi, paure e pregiudizi, Luca chiese di andare a dormire. Che la giornata, la discussione con l'ottuso doganiere, poi la cena, il misto di lingue sconosciute tra loro e gesti universali, la grappa, gli avevano all'improvviso tolto le forze.
domenica 26 luglio 2009
gite letterarie
Così pure fatico a scegliere mete a lunga scadenza: quando arriva la voglia di partire, cerco il biglietto più economico per la meta più appetibile al momento.
Mi è capitato, allora, di afferrare al volo due librini. Il primo, “Puer aeternus” di James Hillman, lo avevo in casa da tempo, regalo di una amica. Il secondo, “Testi segreti” della Duras, l’ho miracolosamente trovato una calda domenica pomeriggio a casa di un ex amore, sommerso tra libri di politica, filosofia e amenità varie. Lui non legge letteratura, non sia mai, e anche quei tre brevi racconti – a quanto si evince dalla dedica – sono lì solo perché il dono di una ex fidanzata, nell’agosto del ’95.
Il testo di Hillman si compone di due scritti ma quello interessante è il primo, dedicato al tradimento. Non parliamo di ‘corna’, volgarmente dette. Oppure sì, anche, ma alla lontana. E comunque l’interesse non sta lì. Il discorso parte da una storiella ebraica evocativa. Il babbo ìncita il figlio a lanciarsi a corpo morto da altezze sempre più grandi, tanto – assicura – ci sarà sempre lui ad accoglierlo tra le braccia. Fino ad un certo punto, però, perché quando il ragazzino si lancia dal gradino più alto, il babbo si scansa e lo fa franare rovinosamente. Che cosa significa il tradimento per il padre? Spiega Hillman: “La capacità di tradire gli altri è affine alla capacità di guidare gli altri. Una paternità compiuta le possiede entrambe”. Come fare allora i conti con il tradimento, insito di necessità in ogni forma d’amore, e poi con la fiducia? Tra le reazioni possibili, interessante il passo sul cinismo, ovvero il TRADIMENTO DI SE’.
Dei tre scritti segreti della Duras l’ex fidanzata dell’ex amore puntò l’attenzione su quello intitolato “La malattia della morte”, storia di un uomo che non aveva mai amato. Mi è piaciuto, soprattutto nella chiusura. “Avete potuto vivere questo amore nel solo modo possibile per voi, perdendolo prima che si realizzasse”.
Altro non riesco a dire. Se non consigliare i due librini a chi è nello spirito di veloci ma appaganti gite fuori porta.
venerdì 10 luglio 2009
la separazione del maschio
Per molti mesi il libro è rimasto nella pila accanto al letto tra quelli che prima o poi avrei affrontato. Un amico scrittore, infatti, mi disse che era una boiata. Poi, recentemente, una amica alle prese con la necessità di capire la solita storia complicata, mi ha detto che il volume era interessante. Allora l’ho preso in mano, pensando che poteva essere una incursione nella stanza dei bottoni: capire come la pensano i maschi, come la vivono.
Alle prime pagine il libro mi è parso così così, poi curioso, poi volevo vedere dove andava a parare.
È la storia di un tale, che parla in prima persona, sposato e con una figlia. Parallelamente tiene su molte storie, te le racconta tutte; il libro passa per vagamente erotico, ma non c’è pezza, per me, l’erotismo o lo vivi o sembra ginnastica. Le sue storie, lui te le spiega così: è attratto dai culi delle donne, si innamora sempre di tutte e il suo amore non è come una torta, che se sono in dieci quelli che devono mangiarci, ne hanno tutti un decimo, ovvero una piccola fetta. La sua capacità di amare è una e trina, diciamo così: rimane sempre compatta, indivisibile, solo che si sposta da un soggetto a un altro, da una cosa a un’altra, anche nel giro di breve tempo, senza togliere nulla all’altro. Lo aiuta in questo, l’assoluta mancanza del senso di colpa (con cui, peraltro, noi cattolici continuiamo nonostante tutto a dover fare i conti, sebbene gli analisti sostengano che oggi è il senso di inadeguatezza il più citato sul lettino).
Poi però la moglie lo lascia, non perché scopre tutto. Perché si fa trovare dal marito con un altro e il marito non le dice niente, niente le rimprovera. Il dramma non sta qui, per il nostro eroe, ma nel fatto che lui pensava di essere onnipotente, di tenere insieme il tutto: amare la moglie, crescere la figlia, vivere la sua sfrenata curiosità sessuale. Invece il tutto precipita, perché c’è qualcuno che agisce fuori da quanto lui aveva previsto, calcolato.
Boh, non so. Il libro non mi ha aggiunto niente. Speravo almeno che mi desse su i nervi, visto che non mi ha fatto capire come e chi e quando spinge i bottoni in quella benedetta stanza. Invece, neanche quello. Forse rimane un filino di ipocrisia: il bisogno di stare dentro una famiglia rassicurante e l’impossibilità di vivere una vita come la si vuole vivere, al di là dei ‘si deve fare’ e ‘come si deve essere’.
Mi rimane, molto personalmente, l’utopia di riuscire a immaginare un amore che non sia possesso, egoismo, accumulo, antidito alla paura, all’inadeguatezza. “Non è stato mai mio, non è stato mai nostro”, dice Meryl Streep sulla tomba di Robert Redford in “la mia Africa”. http://www.youtube.com/watch?v=zMRRXqtKRMI&feature=related
venerdì 5 giugno 2009
Sex and the States
Non sono ancora atterrata a Detroit, che è già America.
"Eternal life is a free gift". La vita eterna è un dono gratuito, è scritto su un volantino lascito incastrato nello specchio del bagno dell'aeroplano. È nel momento in cui un uomo ha bisogno della sua intimità che si pensa di avere più presa sulla sua coscienza. "....is a free...." è circoscritto dentro un ovale frastagliato, lampeggiante, come quelli che si usano per segnalare uno sconto eccezionale. Se, seduti sulla tazza, alla fine della lettura dei passi biblici riportati sul retro del volantino vi siete lasciati convincere che quel Dio è il vostro Salvatore, il volantino vi invita a lasciare i vostri dati. Da Lebanon, Ohio, vi contatteranno.
"I choose to wait. Abstinence untill the wedding", recita un cartello pubblicitario grande come la facciata di una casa lungo una highway del New Mexico. È l'America più puritana, più bigotta e conservatrice. Quella che ancora non sa (ma teme fortemente) della vittoria di Obama che sarebbe arrivata da lì a qualche mese.
Ci finisco anch'io, alla fine del mio viaggio, dentro quel clima terroristico. In una notte a San Francisc
o, città tra le più liberali di tutti gli Stati Uniti, quella in cui c'è posto per tutti e dove su un muro leggo "Use what Mother Nature gave you before Father Time takes it away".
Ebbene, in una notte di San Francisco faccio un sogno dalla sceneggiatura complicata, disturbato da una voce fuori campo che mi dice: "in questa vita non conoscerai mai più l'amore". Il giorno dopo, per strada, getto per caso l'occhio su un predicatore nero che mi urla dietro i piaceri dell'astinenza sessuale prima del matrimonio.
"Troppo tardi", gli rispondo.
"Mai più sesso nella vita, allora", rilancia lui.
Poi, durante il viaggio di ritorno, un articolo apparso sul New York Times mi ritira su di morale. Sotto la testatina 'Modern Love' leggo la storia di una coppia gay che dopo lunga convivenza decide per le nozze. Uno dei due sposi, che è anche l'autore dell'articolo (si chiama Bob Morris; magari in Usa è famoso ma io non lo conosco) scrive: "I still belive that solitude makes me a deeper person, not a lesser one. So I felt kind of guilty for being in a couple. Then there's the fact that marriage often lasts as long as a Botox injection".
La traduzione suona più o meno così: "Credo ancora che la solitudine faccia di me una persona più profonda, piuttosto che una persona da meno. Così mi sentivo come colpevole per il fatto di essere in coppia. Poi c'è il fatto che il matrimonio spesso dura tanto quanto un'iniezione di botulino".
mercoledì 3 giugno 2009
chi in gioventù non fa i suoi fatti......
giovedì 30 aprile 2009
sms
giovedì 2 aprile 2009
il compleanno
Posò il fiore bianco sulla tomba e la vista si fece ancora un po' più umida. Ma non era tristezza. Era la commozione di mostrarsi alla madre come era cambiata in quei dieci anni passati da quando lei non c'era più. Un saluto, e via.
Sulla porta di casa, da un sacchetto spuntavano un paio di piantine fiorite. E un bigliettino umido.
41 = 14 = 7 x 2
magnifici 7, 7 peccati capitali
= 49 - 8 = 7 volte 7
42 - 1 6 volte 7
Quindi meraviglioso
La firma era un omino stilizzato che si toglieva un cappello a cilindro e mostrava un grande mazzo di fiori.
Chi l'aveva incontrata in quei giorni le chiedeva come mai fosse così bella, se era stata in vacanza. Lei sapeva perché: andava a correre di buon'ora. E la notte dormiva poco. Aveva un pensiero per la testa.
Nella mail trovò il saluto di un amico.
oggetto: (una settimana)
testo: c'è un filmetto curioso (cupo e senza luce): Two Lovers
c'è stato il compleanno di Emma (mia nipote)
ho pagato 750 euro (assicurazione ergo vita)
ho mandato un messaggio a Lei (mi ha risposto, mi pensa)
ho visto un po' di gente (poca e non entusiasmante)
ho preso un aperitivo al Portico (era vuoto)
se non ci fossero le parentesi, che vita sarebbe...?
Il suo amico era un poeta, ma non se ne dava conto.
Buon compleanno, allora.
sabato 21 marzo 2009
Osteria del Sole
Esco.
Un ristorante. Un bistrot, di quelli informali da riviste patinate. In mezzo ai libri. Romanzi e spaghetti. Saggi e passate di pomodoro. Poesia e arringhe sott'olio. Un tavolo quadrato, piccolo, da ristorante francese. Loro hanno molte più decine di anni in due, di certo insieme toccano il secolo. A loro manca la luce, l'elettricità è andata via. Lui ha un accento che vien da fuori. Lei una borsa pitonata di colore viola. Fanno a gara a chi ne sa di più di musica, chissà perchè di rock. Roba di quando avevano pochi anni e frequentavano le osterie piene di gente vociante. Lui cerca di impressionarla snocciolandole i titoli dei vinili che custodisce a casa. Lei non si fa impressionare, anzi lo trova un po' idiota. Si sono conosciuti in una chat e hanno pensato che potesse essere un buon modo per conoscersi, per sorprendersi l'uno con l'altra, ma soprattutto con se stessi. No, niente da fare: hanno tagliato i fili della luce. Nessuna elettricità. Anzi, un filo di irritazione per essersi rovinati a vicenda quella ultima scossa. Un po' di antipatia. Già un accenno di odio, quanto meno rancore.
Io in mezzo. Niente osteria, ma incapace di arrendermi al bistrot, ai suoi piatti unici, laccati.
Musica per la scrittura: Keith Jarrett, The Köln Concert.
mercoledì 4 marzo 2009
tin tin tinti
Tin tin tinti, tin tin tinti, tin tin tinti.
Cerco di scriverci sopra una storia, di collegarci i miei pensieri. Una storia. Ce l'ho sulla punta di....., ma non viene. E se avessi smesso di sentire? Magari la storia non viene per quello, perchè ho smesso di sentire. Ascolto ma non sento.
E dire che di cose da raccontare ne avrei tante. Storie di gente che non s'incontra, oppure si scontra, evita d'incontrarsi. Che vorrebbe incontrarsi, ma poi la vita.
Non viene, la storia. Eppure ce l'ho sulla punta di....
Tin tin tinti, tin tin tinti, tin tin tinti. Tin tin tinti, tin tin tinti, tin tin tinti. Tin tin tinti, tin tin tinti, tin tin tinti.
Non riesco ad inanellare i pensieri, le idee, le emozioni.
E la musica va. Va un treno d'infiniti vagoni in una piana dell'Arizona. Va la corsa di chi a correre non riesce più. Va una bici, che pedala, pedala, pedala. Va chi cerca lontano e lontano non ha il coraggio di andare. Va quello che è stato, che avrebbe voluto che fosse, ma che non è riuscito a far essere.
Tin tin tinti.
Come la pelle d'un cane, di quei cuccioli che vestono una pelliccia di qualche taglia ancora troppo grande per loro. No, il contrario. Qui è la pelle ad essere stretta. Come un otre. E se la tiri ancora un po', solo un po', scoppia.
La musica va, per lei è più semplice. Qualcuno l'ha scritta al posto suo.
...............
La musica è andata.
lunedì 2 febbraio 2009
Le amiche e gli uomini delle amiche
Sulle prime non ci avevano fatto caso; sembrava non essere cambiato nulla. E infatti era così: era vero che quel compleanno non aveva cambiato nulla in sé. Erano stati gli anni precedenti ad erodere pian piano le certezze, i desideri, il senso di onnipotenza segnato ora da qualche ruga, fastidiosa ma non più di tanto.
L'inverno della festa era passato. Era venuta la primavera, poi l'estate e quindi era tornato l'inverno. Sarà stato che i mesi freddi di quell'anno si stavano rivelando particolarmente duri. Freddi e grigi. Sempre, senza tregua. Pioggia o neve, mai sole. Sembrava un tempo un po' apocalittico. Oppure come la fine di un film, quando allo scorrere dei titoli di coda si allontana la scena fino a farsi piccola piccola, un panorama a volo d'uccello. Ma qui siamo già oltre la meteorologia, più nella psicologia.
Era stato allora che i quarant'anni avevano bussato alla porta. Coi figli nati, a volte contesi tra i genitori, oppure quelli non nati, perché non voluti, in alcuni casi rincorsi, tentati ma non riusciti. Con gli amori persi, abbandonati, dimenticati, ma mai completamente, rimpianti, odiati, ricordati con rancore, a volte però con malinconia. Con le fatiche di tenere insieme i pezzi della propria vita. Sempre più fragili, quei pezzi, più cagionevoli.
Le vedevo, le amiche, ed erano sempre più belle. Più compatte. Persino più luminose di quando di anni ne avevano venti di meno. Qualcuna era ingrassata qualche chilo di troppo, qualcuna restava magra con troppo zelo. Qualcuna non teneva dietro ai capelli grigi, qualcun altra aveva perso un po' di quello splendore sul seno, sul sedere che aveva incantato tanti uomini. Ma erano belle lo stesso. Anzi, di più.
Cos'era allora che non andava? I loro uomini. Me ne ero resa conto una sera che, caso strano, c'erano tutti: loro, cioè le amiche, e i loro uomini che erano così distanti da quelli che avevano amato, per i quali avevano pianto o camminato a dieci centimetri da terra. Quegli uomini dei quali avevano con tanta dedizione parlato, che avevano immaginato, cercato, inseguito.
Dalla mia posizione di osservatore avevo guardato bene gli uomini che erano invece lì ora, in carne ed ossa. Avevo notato che le donne stavano al centro, attorno a un tavolo. Parlavano, ridevano, bevevano, scherzavano, si abbracciavano, alzavano la voce, mangiavano e ribevevano, tenevano le redini della serata. I loro uomini, invece, erano sparpagliati a contorno di quella corolla di femmine. Uno spalmato sul divano, che sentiva che gli stava venendo la febbre, sosteneva. Un altro, il padrone di casa, che andava avanti e indietro dalla cucina portando piatti sporchi e riportandone altri pieni di cibo appena sfornato. Uno non c'era, era lontano, perché lontano lavorava, ma continuava a mandare messaggi sul telefonino della sua donna. Un paio chiacchieravano tra loro, cercando ogni tanto di agganciarsi a una battuta delle ragazze (mia madre aveva continuato a chiamare 'ragazze' le amiche della canasta anche una volta arrivate ai settant'anni) per far sentire la sua voce, dare la propria versione dei fatti. Altri erano sparsi qua e là per la casa.
Anche loro, i maschi, erano begli uomini, non sia mai. Di tutte le età: qualcuno aveva varcato la barriera dei cinquanta, ma c'era anche chi aveva qualche anno di meno delle ragazze. Ce n'erano per tutti i gusti: alti e bassi, grassi e magri. Con le spalle larghe o il mento appuntito con la barbetta del contemplativo. Uno pelatino, un altro con dei ricci neri che non stavano mai da nessuna parte e un altro ancora che non si decideva a tagliare la coda di capelli ormai grigi. Ex del Movimento e chi con la politica non c'aveva mai avuto nulla a che spartire, di sinistra o qualunquisti, di destra no, quello mai. Un architetto e un cuoco, un agricoltore e teatrante.
A vederli separatamente, a incontrarli una sera in una cena da soli, senza compagne, non avrei rilevato in loro nulla che non andasse, nulla di vistosamente fastidioso. Era però per via del fatto che conoscevo le loro donne che sostenevo, e a ragion veduta, che non andavano. Non andavano per le ragazze, per quello che avevano a lungo sperato, immaginato del loro futuro. Non era questione di compromessi, né di aspettative ridimensionate. Erano riusciti a prenderle per sfinimento, lo sfinimento di vivere amori a perdifiato, assoluti, disperati nella gioia come nel dolore. Quegli uomini erano arrivati una volta che quelle donne si erano sedute su una panchina all'ombra, per riposare un poco, fare pausa, ricaricare le energie. Le avevano colte in un momento di debolezza. E loro, consapevoli, si erano fatte cogliere. Ecco che cosa erano i quarant'anni, quella erosione che centimetro dopo centimetro aveva scavato la roccia. Ma non era una resa, non era ripiego. Era consapevolezza.