mercoledì 19 settembre 2007

capitolo 6.

6.


Come potevo pensare di tenere uno così chiuso per sempre nel mio appartamento di cento metri quadrati, tre camere, una cucina (seppur abitabile) di una comune città di pianura, gelo umido d’inverno e caldo soffocante ed altrettanto umido d’estate?
E poi a me lui piaceva proprio per quello; perché non c’era niente e nessuno che lo avrebbero potuto tenere fermo in qualche posto.
Non era nemmeno quello il tema. Io mi ero innamorata di lui perché lui era tutto quello che io avrei voluto essere e non sarei mai stata: era la libertà che non avrei mai avuto il coraggio di prendermi. E soprattutto era una libertà riempita di una grande fragilità. Era facile essere uno di quelli che non hanno mai paura, che sono sempre a posto in ogni posto, che stanno sempre bene ovunque, che pensano positivo e che tirano diritto senza che niente riesca mai a scalfirli, senza che nessun dubbio li faccia mai indietreggiare di un metro, o perlomeno rallentare, scalare un marcia. Di quelli a me non interessava assolutamente niente: era gente di un altro pianeta. Sam sfidava la sua paura, i suoi fantasmi, prendendoli per le corna, con rabbia. Non che ne uscisse sempre vincitore, anzi, il più delle volte ne rimaneva schiacciato, però si dimenava, si divincolava, non rimaneva come me a girare incessantemente nella ruota del cricetino. O perlomeno quella era la mia idea.
Lui non si era fatto fottere dalla paura. Io sì. Era la paura ciò che mi fregava da una vita, che mi seguiva come un’ombra, tenendomi al guinzaglio. Anche io provavo rabbia, ma la mia rabbia riuscivo solo a sfogarla contro di me: mi odiavo, mi detestavo, stavo male dentro la mia pelle. Anzi, non ci stavo proprio dentro.
Forse era anche per tutto questo che mi ero innamorata di lui, oltre che per mille altre cose: i suoi occhi spaventati, le sue braccia, il suo incedere sospetto.

E così ci eravamo innamorati. Almeno io lo ero, lui non so. Me lo diceva, a volte. A modo suo, come si dice, come era in grado di fare. Una notte lo avevo perso in mezzo alla ressa degli universitari rimasti in città per gli ultimi esami e che di sera affollavano uno di quei pochi posti all'aperto sopravvissuti all'impoverimento di opportunità di socializzazione cittadine: un cortile di un palazzo storico dove bere birra, sperare in un po' di fresco e poco altro, ovvero nessun orpello culturaleggiante, nessuna illusione. Mi ero allontanata per qualche minuto e al ritorno Sam non era più lì dove lo avevo lasciato. Guardandomi attorno, dopo un po' lo vidi seduto su un gradino di lato.
"Volevo osservarti mentre tornavi", mi disse sorridendo. "Sei bella davvero".
Queste le parole. Ma era come mi guardava, come mi abbracciava col sorriso e con il suo corpo, che mi faceva sentire amata. Amata davvero come da tempo non immaginavo che sarebbe potuto accadere. E come da lì a poco non avrei immaginato che potesse ancora accadere in futuro.
Dal niente al tutto. Nel giro di qualche giorno, un incontro, un bacio e la mia vita bastante a se stessa era cambiata, completamente ricalibrata per fare spazio a lui, come se lui fosse sempre stato lì con me. La mia casa, il mio tempo, il mio lavoro, i miei amici, tutto faceva ora i conti con la sua presenza. E, a sorpresa, mi piaceva. Nelle cose banali, in quelle scontate: addormentarsi abbracciati, preparare una cena, uscire per un gelato sotto casa.
E anche lui per un po' sembrava avere trovato pace.
Io continuavo il mio lavoro, anche se distrattamente. La mattina uscivo alle nove e se lui era ancora a letto gli lasciavo sempre un messaggio sul tavolo di cucina. Era per annunciargli se sarei tornata a casa a pranzo oppure no, per lasciargli qualche indicazione, un nome, una piccola mappa per arrivare da qualche parte, un posto da vedere di cui avevamo parlato la sera prima. Più spesso era per dirgli che gli volevo bene, che ero felice che lui fosse lì. Al suo risveglio mi telefonava, semplicemente per un saluto.
La sera cercavo di tornare a casa prima che potevo e se lui non c'era, ero io a trovare un biglietto sul tavolo di cucina.

"Francesca, che meraviglioso, rassicurante e affettuoso messaggio mi hai lasciato. Mi ha toccato il cuore; del resto tu tocchi il mio cuore dal momento che ci siamo incontrati. Sei la donna più sincera, adorabile, matura e intuitiva che io abbia mai incontrato nella mia vita. E' così bello sentirsi compreso senza alcun rimprovero, o senza ricorrere a quei giochetti che fanno solitamente le persone quando stanno insieme.
Nel mio vagare come un matto, qualche volta penso che la mia follia sia una forma di iperrealismo, una chiarezza alla cui la maggior parte della gente non ha la fortuna di riuscire ad arrivare.
Lo so, lo sento, lo avverto scorrere nel mio sangue che NOI siamo solo all'inizio, e ho fiducia e spero che l'amore che condividiamo non può e non potrà mai morire o essere in qualche modo fermato.
Abbi fiducia di questo. Il piacere di stare con te, di parlare e fantasticare, di fare l'amore, preparare da cena, mettere a posto casa, progettare viaggi e libri da scrivere assieme, tutto questo va oltre ogni confine geografico.
Così, per oggi, buona giornata, buon lavoro. Io sono felice accanto a te. Spero di rimanere sempre una parte importante (e in crescita) della tua bellissima vita".
Questo mi lasciò scritto una mattina prima di partire per un fine settimana in Toscana dove sarebbe rimasto per alcuni giorni per rivedere un vecchio amico australiano. Ma i suoi messaggi non erano solo pensieri, affettuosità, notizie di servizio. Ogni foglio di carta diventava una composizione grafica o pittorica, colori e disegni di una vivacità e una energia che non sempre Sam riusciva ad esprimere altrimenti.
(6.continua)

1 commento:

Marco M. Lupoi ha detto...

Ci sei davvero tu qua dentro, così tanto che fa male anche leggerti.