lunedì 10 settembre 2007

Capitolo 5

5.

Per cinque anni io e mia madre non abbiamo scambiato neanche una parola. Il motivo risale a quando ci siamo trasferiti dopo che i miei si erano separati. Io ero all’ultimo anno del liceo e per guadagnarmi un po’ di soldi vendevo marijuana agli amici. Mi beccarono, mandarono a chiamare mia madre a scuola e lei qualche giorno dopo mi mise alla porta. Per cinque anni, dico, per cinque anni non mi ha voluto vedere. Fu poco dopo, allora, che partii per Hong Kong, poi l’Australia e l’Indonesia.
Tornato negli Stati Uniti, non sapevo dove andare. Mi venne in mente che una soluzione potesse essere una tapee, una di quelle tende tipiche degli indiani d'America. Per accamparmi, trovai una proprietà che mi pareva fare al caso mio. La proprietaria si chiamava Jane ed era una donna di mezza età, sola e imbarbarita. Le era scesa completamente la catena quando i servizi sociali le avevano tolto la figlia. Una bambina di dieci anni, dissero, non poteva vivere in una baracca senza luce elettrica, senza acqua corrente e quindi senza i servizi igienici. Jane non aveva retto: era caduta nella depressione più nera e poi, come succede, era scivolata sulla via dell’alcol.
Per guadagnare qualche soldo, facevo il pizzaiolo in un ristorante italiano, e quando tornavo dal lavoro parcheggiavo la mia macchina vicino alla sua baracca, perché tanto più in là non si poteva andare. Da lì ci voleva almeno una mezz’ora per arrivare al mio accampamento: ci andavo a piedi e d’inverno, se c’era la neve (e da quelle parti ne faceva parecchia), con gli sci ai piedi. Per un anno ho vissuto in quella tenda col caldo e con il freddo. Da solo. Per un anno senza una fidanzata, qualcuno da amare.
Poteva succedere che qualche sera mi fermavo da Jane, per vedere come stava.
“Non ce la faccio”, mi ripeteva.
“Jane, perché non vendi questo terreno? Potresti farci un bel po’ di soldi e andartene da qui, partire, girare il mondo”.
Non c’era verso. Fino a quella notte di capodanno.
Mi ero comprato una bottiglia di vino per festeggiare comunque il nuovo anno, anche se da solo nella mia tenda. Ad un certo punto sentii un colpo. Jane lo aveva fatto: si era uccisa.
Riuscii a tirarmi fuori da quella condizione di solitudine quando finalmente mi misi insieme ad una ragazza che faceva l’università. “Ti devi iscrivere anche tu, hai talento”, mi ripeteva. Le diedi corda e un giorno andai con lei giù in città, a Boulder, per avere un’idea di che cosa fosse l'università ma soprattutto di che cosa potessi farci io all'università. “Se mi piace, ok, ci provo”, le dissi. Mi piacque e lei mi aiutò a riempire i moduli d’iscrizione per il corso d'arte. Quella non era certo l’università più prestigiosa del paese. Del resto, i miei voti al liceo erano stati talmente schifosi che difficilmente mi avrebbero ammesso altrove. Anche qui in un primo momento mi rifiutarono. “C’è un altro modo”, mi disse la mia ragazza e mi convinse a provare anche quello. Per sei mesi dovevo frequentare i corsi preparatori che mi dicevano loro e prendere pure buoni voti, solo così avrei dimostrato che di me si poteva fare un buon studente, che non avrebbero perso il loro tempo, che non avrei occupato un posto che sarebbe stato più fruttuoso per qualcun altro. Solo convincendoli di tutto questo, facendo ciò che volevano loro, mi avrebbero ammesso. Gesù, non so come ma ce la feci: cominciai a studiare perché volevo diventare uno scultore.
foto di David Koffend
(5. Continua)

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