mercoledì 8 agosto 2007

Capitolo 2.

2.

“Ognuno si fidanza con la propria malattia”, ripeteva un amico perso troppo presto a noi ragazze quando piagnucolavamo per aver scelto ancora una volta l’uomo sbagliato. Anche se poi, chi lo dice che esiste l’uomo giusto? Che cosa fa di una persona un'entità così assoluta come quella di 'uomo giusto'? Ognuno di noi incontra chi è pronto a incontrare. Domani, diceva quella del film, è un altro giorno. E io avevo incontrato Sam. Bello, bellissimo. Sguardo diffidente e sorriso aperto. Camminata sghemba e spalle robuste. Soprattutto parlava un’altra lingua e veniva da molto lontano. Questo a me bastava per immagine che con lui avrei potuto fare punto e a capo, cominciare un altra vita, non più qui, non più così.
Avevamo vissuto insieme, improvvisamente, come mai mi era capitato nella mia vita. Si muoveva in casa mia come se da sempre fosse stata casa sua. Camminavamo l'uno accanto all’altra con lo stesso passo, nella stessa direzione.

(foto di David Koffend)


“C’era una volta due amanti. Lei era una giornalista, di buona e cattiva fama. Lui era di passaggio, dopo un safari dello spirito più che geografico, senza capo né coda in giro per mezza India, correndo dietro alle sue ombre e nascosto nell'ombra. Hanno camminato insieme per molti momenti di beatitudine, mescolati ad altri di confusione e di sofferenza per i loro cuori. Le piante sulla terrazza erano felici, il matrimonio degli amici in Sicilia è stato un momento felice, loro erano felici nel loro modo di essere unico ed eccentrico.
Sono stati sulle Dolomiti, in camminata, hanno socializzato qui e là, hanno corso con le loro biciclette, se ne sono stati a guardare le candele che bruciavano fino a spegnersi.
Ci sono stati molti sorrisi e molte chiacchiere.
Sento la mancanza di quei giorni”.

Così aveva scritto Sam in una mail, una volta che se ne era andato via e non se ne capiva il motivo. Oppure no, il motivo c’era ed era scritto lì: lui era di passaggio. Sempre e ovunque. Troppo difficile fermarsi. Troppo rischioso. E sebbene io avessi sognato di fermarlo, a me in fondo lui era piaciuto così, un escursionista del vivere senza patria e forse senza un perché.
I miei amici, se mai le leggeranno, rideranno di queste mie pagine. Il mio cinismo si prenderà gioco di me, rileggendo di questa mia vacanza dalla vita, da una vita costruita su un binario da cui faccio fatica a scendere. Ma questa è la storia di una vacanza che un tempo mi sono presa seguendo i racconti di un uomo che vedevo libero di vivere, a fatica e a volte per non sapere fare altro, la vita che gli andava di vivere. Non era un giramondo, non era quello che le signore della generazione di mia madre avrebbero chiamato un avventuriero. Era solo inquietudine la sua, impossibilità di stare dentro le sue scarpe. Era una battaglia che sembrava avere dichiarato con se stesso già poco dopo che era arrivato su questo mondo.
Di notte, tra una birra e l’altra, mi raccontava le storie della sua vita. In inglese, in una lingua che conoscevo ma che non era mia e di cui pertanto non distinguevo le ombre che facevano le parole una volta uscite dalla bocca. Lo seguivo attraverso montagne, mari e strade che facevano parte solo del mio immaginario libresco. Non mi importava se ciò che mi raccontava era vero o meno: era ciò che volevo sentirmi raccontare, erano le montagne, i mari, le strade che avrei voluto attraversare se solo avessi avuto il coraggio. La mattina dopo scrivevo tutto, per comporre il diario di questa vacanza che mi ero presa dalla mia vita di criceto.
Allora è chiaro che queste pagine sono la storia di un furto. Ho viaggiato da 'portoghese', lo ammetto, salendo a bordo senza biglietto al posto di qualcun altro, non tanto per scroccare il passaggio, ma per vivere tutta l'esperienza del viaggio.


(2. Continua)

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