Mario Dondero conosce, come pochi, l´arte della vita. Non le durezze, le asperità, gli infingimenti, le delusioni, che a volte l´attraversano. Ma la semplicità nascosta che la vita a volte ci offre e che raramente sappiamo gustare. «La semplicità è il risultato di un percorso, più che un inizio», dice Dondero. Nell´avvicinarsi degli ottant´anni, che compirà tra qualche mese, gli amici gli hanno fatto un dono: hanno raccolto le foto degli scrittori che ha fissato nel corso di più di mezzo secolo. C´è di tutto. Ma c´è anche l´immagine che ha fatto il giro del mondo da cui Alain Robbe-Grillet dice sia nato ufficialmente il Nouveau Roman.
Ci incontriamo ad una cena a casa di amici comuni. Mario è un catalizzatore. Seduto al tavolo, alla fine della serata, tra le posate i bicchieri, i piatti, improvvisa due o tre canzoni. Canta con la postura di uno chansonnier. Senza base, senza musica. Con voce lieve intona due o tre antiche canzoni, che gli sono state richieste un po´ per gioco. È nell´intrattenimento che Dondero sorprende. Conosce la leggerezza della conversazione. Conosce il ritmo della parola. Le pause. È cortese e piacevole. Solitario e amicale, insieme. Professione reporter. Cosa vuol dire andare e scattare? Cosa vuol dire viaggiare e sostare per quel tanto o quel poco che serve al mestiere? Ultimamente Dondero è tornato in Russia. Un lungo reportage su un paese devastato dalle contraddizioni che il nostro riassume con una battuta: «Avevo un amico russo che faceva il regista, l´ultima volta che lo vidi stava girando un film su Majakovskij. L´ho rivisto oggi. Ci siamo abbracciati e poi, con aria desolata, mi ha detto sono passato dal cinema sui poeti agli spot sugli antifurto».
Verrebbe da dire: è il capitalismo, bellezza.
Verrebbe da dire: è il capitalismo, bellezza.
«Verrebbe da dire: quel socialismo non aveva futuro. Ho viaggiato nell´Unione Sovietica e nella nuova Russia. Sa cosa unisce ancora il vecchio e il nuovo? La vodka. Fiumi di vodka ovunque. Alcolismo più inflazione. Magari il paese è più felice, anche se non lo credo. Riconosco però che il capitalismo è eccitante e il socialismo, soprattutto quello strombazzato in un paese solo, deprimente. Dopo questo viaggio mi sono scoperto un vecchio signore demodé, ma ancora innamorato della realtà».
Un fotografo come la racconta?
«Ci sono molti modi. Io ho sempre cercato di essere il più semplice e lineare possibile. E poi non si deve perdere di vista la verità. Mi infastidiscono le costruzioni artificiose».
La verità è una bella responsabilità.
«Non parlo di una verità assoluta. Quello che intendo dire è che, malgrado tutto, esiste un´autenticità che il fotografo può restituire. Ma occorre essere leale, franco, generoso».
Sono virtù che si applicano alle relazioni umane più che al rapporto con la realtà.
«Il mio modo di fotografare richiede un elemento antropologico. Una strada non è una strada, o una finestra non è una finestra se non c´è la presenza umana. So bene che tutto può essere inventato, costruito, falsificato. Viviamo nel regno dei doppi, delle teorie sulla scomparsa dell´originale, delle seconde vite. Ma se accettassimo il principio che il falso è più aderente alla realtà del vero, cadrebbe il rispetto per il mondo, per ciò che vi accade veramente. O quanto meno finiremmo con il confondere storia, cronaca e propaganda. Quando vedo la foto di un bambino iracheno tra le braccia di un marine ho il forte sospetto che sia stato l´ufficio stampa della sua divisione a suggerirglielo».
Cosa vuol dire raccontare una guerra per immagini?
«Una guerra è un immenso avvenimento e il fotografo partecipa a quell´evento come fosse una monade piccolissima. Occorrono tenacia, umiltà, intuizione, resistenza, e una gran dose di fortuna per svolgere al meglio il proprio lavoro».
E il suo come è stato?
«Ho partecipato a molte guerre, mai come un avventuriero, ma spinto dall´indignazione. Ho sempre privilegiato questo sentimento. E sono convinto che le foto più significative per testimoniare questo stato d´animo devono essere in bianco e nero. Il colore distrae. Fotografare una guerra a colori mi appare immorale. Capisco che è una convinzione discutibile».
Questa predilezione per la fotografia in bianco e nero ha anche una spiegazione storica oltre che etica?
«È indubbio che sono stato influenzato dal mondo francese, nel quale ho a lungo vissuto. Fotografi come Robert Doisneau, Cartier-Bresson, Willy Ronis, lo stesso Robert Capa, che era di origini ungheresi, sono stati il mio modello per il bianco e nero».
Ma cos´è il bianco e nero?
«È come chiedere a un tradizionalista che cos´è la messa in latino. Sono affezionato a un particolare modello di pellicola, l´hps, che è poi quella con cui Godard ha girato À bout de soufle. Mi sento legato a quella stagione lì e alla Francia».
Cosa le piace di quel paese?
«La rivoluzione dell´89, le donne, la fotografia e un certo clima culturale irripetibile altrove. Arrivai a Parigi nel 1952».
E chi le capitava di frequentare allora?
«Le persone più disparate: attori, cantanti, scrittori. Era un meraviglioso zoo con le gabbie sempre aperte Sono stato un buon amico di Claude Simon, ho conosciuto bene Serge Reggiani e Yves Montand, ho frequentato Jean Seberg, l´interprete di À bout de soufle. Recentemente è uscita una sua biografia con una foto di lei in copertina che scattai tantissimi anni fa».
Che effetto le ha fatto?
«Stranissimo. Ho provato una grande malinconia per il potere evocativo che certe immagini nascondono e insieme di euforia per la forza, la potenzialità che ancora un mezzo come la fotografia possiede».
Come ha conosciuto la Seberg?
«Preparavo un servizio fotografico. Ci conoscemmo prima del film che avrebbe girato con Godard. Mi diede l´impressione di una ragazza fragile. Ma anche la sua fragilità contribuiva a renderla bellissima. Era come se raccontasse di un dolore muto. Ha avuto un´esistenza tragica».
Lei ha fotografato tantissima gente.
«Da Picasso a Beckett, da Roland Barthes a Georges Dumezil, il numero è effettivamente grande. Ora che ci penso ricordo che Dumezil mi ricevette nella sua casa parigina invasa dai libri. Provai un senso di soffocamento. Dumezil aveva un´aria indispettita perché, disse, non amava farsi fotografare. A un certo punto, non sapendo cosa fare, afferrai un libro che sporgeva da una tavola. Era un testo sugli ittiti. E Dumezil, come risvegliandosi da un letargo si illuminò e mi tenne una lezione di due ore sulle origini di quel popolo».
C´è qualcuno che non è riuscito a fotografare?
«Marc Chagall. Ricordo che andai a trovarlo. Parlavo piuttosto male il francese e lui cominciò a farmi un sacco di domande e siccome non capivo quasi nulla sorridevo con dei grandi cenni di assenso. A un certo punto capii che chiedeva qualcosa che dimostrasse che io ero effettivamente un giornalista. Io indicavo la macchina fotografica e lui, agitando le braccia, diceva che non era sufficiente. Voleva una prova più evidente: un foglio, un tesserino, una testimonianza scritta. Se penso alle sue creature volatili e alla ferrea burocrazia dimostratami, mi verrebbe da concludere che a volte la natura umana ha qualcosa di imperscrutabile».
Lei è passato nei libri di storia della fotografia per una foto che riunisce alcuni premi Nobel e vari altri scrittori. Come è nato quello scatto?
«Stavo facendo, insieme a Giancarlo Marmori, un reportage per L´illustrazione italiana. Era il 1959. Eravamo all´interno dei locali delle edizioni Minuit e c´erano diversi scrittori che discutevano. A me venne l´idea di portarli fuori e di fotografarli».
Chi erano?
«C´erano, tra gli altri, Claude Simon, Alain Robbe Grillet, Nathalie Sarraute, e Samuel Beckett, del quale era nota l´allergia a farsi ritrarre o intervistare. Li feci sistemare in modo che non sembrasse l´istantanea di una squadra di calcio e venne fuori questa foto di gruppo molto particolare. Robbe Grillet scrisse che quell´immagine era all´origine del nouvea roman, poi seguirono alcune tesi di laurea e io divenni, mio malgrado, il fotografo che aveva immortalato la grande letteratura».
Le dava fastidio?
«No, affatto. Però quella immagine mi ha inseguito tutta la vita. Mentre la foto che scattai clandestinamente a Panagulis, durante il processo in Grecia, non ha avuto eguale fortuna».
Cos´è che decreta il successo di una foto?
«Quando la scatti non sei per nulla consapevole che proprio quella foto resterà. C´è una casualità che confina con l´eterno».
A proposito di eterno, Giorgio Agamben le ha dedicato un saggio molto bello.
«Sì mi pare che lui abbia associato le mie foto, ma non solo le mie, all´idea del Giudizio Universale. Certe foto, insomma, ricorderebbero l´Ultimo Giorno, il giorno del giudizio. Mi ha toccato questa immagine e credo che bisogna amare molto certe fotografie per associarle a un evento così capitale. Ma non tocca a me spiegare. Fotografando ritengo si lavori per la storia, anche quella apparentemente più minuta e trascurabile».
C´è ancora una storia che merita di essere raccontata per immagini?
«C´è sempre perché la vita, malgrado tutto, continua a venirci incontro. Il nostro compito è catturare momenti irripetibili che resteranno a disposizione di quelli che vengono dopo. Per me la foto è un lavoro sociale. E considero l´immagine inventata una slealtà prima di tutto verso se stessi, verso la propria parte umana. È qualcosa che ho appreso molto tempo fa».
Quando, esattamente?
«Quando a 16 anni divenni partigiano. Lungi da me la retorica del combattente irregolare. Ma alla fine, tutto ciò che mi avrebbe riguardato in seguito partiva da lì: da quella scelta fatta contro le ingiustizie. Furono anni austeri e dolorosi. Poi, con la caduta del fascismo, ci sembrò di entrare in una nuova vita. Avevo una passione naturale per il giornalismo e l´assecondai. La fotografia fu una conseguenza che si realizzò negli anni del mio soggiorno milanese».
Furono anche gli anni della frequentazione del bar Giamaica.
«È stato un periodo irripetibile. Degnamente sottolineato da Ugo Mulas che su quel luogo fece delle fotografie straordinarie e da Luciano Bianciardi che vi scrisse. Tra l´altro, fui io a incoraggiare Ugo a occuparsi di fotografia».
Perché lo fece?
«Perché aveva talento. Possedeva occhio e pazienza. Per la verità Ugo fotografava in modo realista. C´era una grande raffinatezza nelle sue foto e un rigore tecnico assoluto. Poteva passare giorni prima di sviluppare un solo negativo. È stato un artista alla ricerca della semplicità. Per certi tratti mi ricorda Pasolini».
Lo ha conosciuto bene?
«In una delle mie tante vite. Diciamo durante il periodo in cui ho vissuto a Roma, alla fine degli anni Sessanta. Credo che la sua ricerca ossessiva di un mondo arcaico nascesse da un bisogno di semplicità e di autenticità che si portava dentro. È strano quanto la sua raffinatezza di intellettuale di statura europea potesse convivere con questa ricerca di emozioni elementari».
Era un esteta del mondo perduto.
«No, era lui stesso una parte di quel mondo. O almeno così credeva».
Cosa significa oggi il mestiere di fotografo?
«Può voler dire tutto e niente. C´è il mestiere di Corona e quello di Kapuscinki, per fare due esempi agli antipodi».
C´è una differenza?
«Tutti e due devono avere fiuto e sensibilità sviluppate. Ma è dove orientano queste doti che è importante. Kapuscinki non è stato propriamente un fotografo, ma un reporter che ha innalzato il reportage al livello della grandissima fotografia. I suoi scritti li ho visti come meravigliose istantanee».
E di un fotografo come Salgado cosa pensa?
«Posto che non è difficile considerarlo un grande, in lui prevale fortissima la corda estetica. E questo edulcora il risultato»
Ha mai pensato di fare qualcosa di diverso dal fotografo?
«A un certo punto avrei potuto intraprendere la carriera di cineasta. Ma non ho mai rimpianto di averci rinunciato. Sono come un raccoglitore di legna per il fuoco dell´informazione».
Le è mai capitato di fornire legna bagnata?
«No, o almeno non penso. Ho seguito un cammino personale. E mi ritengo. nonostante abbia vissuto come un irregolare, una persona profondamente fortunata. Sa perché non mi ha mai stancato il mestiere? Perché nell´esaltazione di un dettaglio, nella ricerca di un gesto da fissare, ho sempre cercato quel senso originale che spesso crediamo si sia smarrito».
E lo ha trovato?
«Potrebbe essere molto deprimente scoprire che tutto quello che hai fatto è fatuo o inutile. Perciò preferisco immaginare che la fotografia sia stato il solo dono che ho avuto di raccontare la vita».
Senza base musicale?
«Senza accompagnamento, né colore, con la luce del bianco e nero».
di Antonio Gnoli
Da La Repubblica del 30 gennaio 2008
Un fotografo come la racconta?
«Ci sono molti modi. Io ho sempre cercato di essere il più semplice e lineare possibile. E poi non si deve perdere di vista la verità. Mi infastidiscono le costruzioni artificiose».
La verità è una bella responsabilità.
«Non parlo di una verità assoluta. Quello che intendo dire è che, malgrado tutto, esiste un´autenticità che il fotografo può restituire. Ma occorre essere leale, franco, generoso».
Sono virtù che si applicano alle relazioni umane più che al rapporto con la realtà.
«Il mio modo di fotografare richiede un elemento antropologico. Una strada non è una strada, o una finestra non è una finestra se non c´è la presenza umana. So bene che tutto può essere inventato, costruito, falsificato. Viviamo nel regno dei doppi, delle teorie sulla scomparsa dell´originale, delle seconde vite. Ma se accettassimo il principio che il falso è più aderente alla realtà del vero, cadrebbe il rispetto per il mondo, per ciò che vi accade veramente. O quanto meno finiremmo con il confondere storia, cronaca e propaganda. Quando vedo la foto di un bambino iracheno tra le braccia di un marine ho il forte sospetto che sia stato l´ufficio stampa della sua divisione a suggerirglielo».
Cosa vuol dire raccontare una guerra per immagini?
«Una guerra è un immenso avvenimento e il fotografo partecipa a quell´evento come fosse una monade piccolissima. Occorrono tenacia, umiltà, intuizione, resistenza, e una gran dose di fortuna per svolgere al meglio il proprio lavoro».
E il suo come è stato?
«Ho partecipato a molte guerre, mai come un avventuriero, ma spinto dall´indignazione. Ho sempre privilegiato questo sentimento. E sono convinto che le foto più significative per testimoniare questo stato d´animo devono essere in bianco e nero. Il colore distrae. Fotografare una guerra a colori mi appare immorale. Capisco che è una convinzione discutibile».
Questa predilezione per la fotografia in bianco e nero ha anche una spiegazione storica oltre che etica?
«È indubbio che sono stato influenzato dal mondo francese, nel quale ho a lungo vissuto. Fotografi come Robert Doisneau, Cartier-Bresson, Willy Ronis, lo stesso Robert Capa, che era di origini ungheresi, sono stati il mio modello per il bianco e nero».
Ma cos´è il bianco e nero?
«È come chiedere a un tradizionalista che cos´è la messa in latino. Sono affezionato a un particolare modello di pellicola, l´hps, che è poi quella con cui Godard ha girato À bout de soufle. Mi sento legato a quella stagione lì e alla Francia».
Cosa le piace di quel paese?
«La rivoluzione dell´89, le donne, la fotografia e un certo clima culturale irripetibile altrove. Arrivai a Parigi nel 1952».
E chi le capitava di frequentare allora?
«Le persone più disparate: attori, cantanti, scrittori. Era un meraviglioso zoo con le gabbie sempre aperte Sono stato un buon amico di Claude Simon, ho conosciuto bene Serge Reggiani e Yves Montand, ho frequentato Jean Seberg, l´interprete di À bout de soufle. Recentemente è uscita una sua biografia con una foto di lei in copertina che scattai tantissimi anni fa».
Che effetto le ha fatto?
«Stranissimo. Ho provato una grande malinconia per il potere evocativo che certe immagini nascondono e insieme di euforia per la forza, la potenzialità che ancora un mezzo come la fotografia possiede».
Come ha conosciuto la Seberg?
«Preparavo un servizio fotografico. Ci conoscemmo prima del film che avrebbe girato con Godard. Mi diede l´impressione di una ragazza fragile. Ma anche la sua fragilità contribuiva a renderla bellissima. Era come se raccontasse di un dolore muto. Ha avuto un´esistenza tragica».
Lei ha fotografato tantissima gente.
«Da Picasso a Beckett, da Roland Barthes a Georges Dumezil, il numero è effettivamente grande. Ora che ci penso ricordo che Dumezil mi ricevette nella sua casa parigina invasa dai libri. Provai un senso di soffocamento. Dumezil aveva un´aria indispettita perché, disse, non amava farsi fotografare. A un certo punto, non sapendo cosa fare, afferrai un libro che sporgeva da una tavola. Era un testo sugli ittiti. E Dumezil, come risvegliandosi da un letargo si illuminò e mi tenne una lezione di due ore sulle origini di quel popolo».
C´è qualcuno che non è riuscito a fotografare?
«Marc Chagall. Ricordo che andai a trovarlo. Parlavo piuttosto male il francese e lui cominciò a farmi un sacco di domande e siccome non capivo quasi nulla sorridevo con dei grandi cenni di assenso. A un certo punto capii che chiedeva qualcosa che dimostrasse che io ero effettivamente un giornalista. Io indicavo la macchina fotografica e lui, agitando le braccia, diceva che non era sufficiente. Voleva una prova più evidente: un foglio, un tesserino, una testimonianza scritta. Se penso alle sue creature volatili e alla ferrea burocrazia dimostratami, mi verrebbe da concludere che a volte la natura umana ha qualcosa di imperscrutabile».
Lei è passato nei libri di storia della fotografia per una foto che riunisce alcuni premi Nobel e vari altri scrittori. Come è nato quello scatto?
«Stavo facendo, insieme a Giancarlo Marmori, un reportage per L´illustrazione italiana. Era il 1959. Eravamo all´interno dei locali delle edizioni Minuit e c´erano diversi scrittori che discutevano. A me venne l´idea di portarli fuori e di fotografarli».
Chi erano?
«C´erano, tra gli altri, Claude Simon, Alain Robbe Grillet, Nathalie Sarraute, e Samuel Beckett, del quale era nota l´allergia a farsi ritrarre o intervistare. Li feci sistemare in modo che non sembrasse l´istantanea di una squadra di calcio e venne fuori questa foto di gruppo molto particolare. Robbe Grillet scrisse che quell´immagine era all´origine del nouvea roman, poi seguirono alcune tesi di laurea e io divenni, mio malgrado, il fotografo che aveva immortalato la grande letteratura».
Le dava fastidio?
«No, affatto. Però quella immagine mi ha inseguito tutta la vita. Mentre la foto che scattai clandestinamente a Panagulis, durante il processo in Grecia, non ha avuto eguale fortuna».
Cos´è che decreta il successo di una foto?
«Quando la scatti non sei per nulla consapevole che proprio quella foto resterà. C´è una casualità che confina con l´eterno».
A proposito di eterno, Giorgio Agamben le ha dedicato un saggio molto bello.
«Sì mi pare che lui abbia associato le mie foto, ma non solo le mie, all´idea del Giudizio Universale. Certe foto, insomma, ricorderebbero l´Ultimo Giorno, il giorno del giudizio. Mi ha toccato questa immagine e credo che bisogna amare molto certe fotografie per associarle a un evento così capitale. Ma non tocca a me spiegare. Fotografando ritengo si lavori per la storia, anche quella apparentemente più minuta e trascurabile».
C´è ancora una storia che merita di essere raccontata per immagini?
«C´è sempre perché la vita, malgrado tutto, continua a venirci incontro. Il nostro compito è catturare momenti irripetibili che resteranno a disposizione di quelli che vengono dopo. Per me la foto è un lavoro sociale. E considero l´immagine inventata una slealtà prima di tutto verso se stessi, verso la propria parte umana. È qualcosa che ho appreso molto tempo fa».
Quando, esattamente?
«Quando a 16 anni divenni partigiano. Lungi da me la retorica del combattente irregolare. Ma alla fine, tutto ciò che mi avrebbe riguardato in seguito partiva da lì: da quella scelta fatta contro le ingiustizie. Furono anni austeri e dolorosi. Poi, con la caduta del fascismo, ci sembrò di entrare in una nuova vita. Avevo una passione naturale per il giornalismo e l´assecondai. La fotografia fu una conseguenza che si realizzò negli anni del mio soggiorno milanese».
Furono anche gli anni della frequentazione del bar Giamaica.
«È stato un periodo irripetibile. Degnamente sottolineato da Ugo Mulas che su quel luogo fece delle fotografie straordinarie e da Luciano Bianciardi che vi scrisse. Tra l´altro, fui io a incoraggiare Ugo a occuparsi di fotografia».
Perché lo fece?
«Perché aveva talento. Possedeva occhio e pazienza. Per la verità Ugo fotografava in modo realista. C´era una grande raffinatezza nelle sue foto e un rigore tecnico assoluto. Poteva passare giorni prima di sviluppare un solo negativo. È stato un artista alla ricerca della semplicità. Per certi tratti mi ricorda Pasolini».
Lo ha conosciuto bene?
«In una delle mie tante vite. Diciamo durante il periodo in cui ho vissuto a Roma, alla fine degli anni Sessanta. Credo che la sua ricerca ossessiva di un mondo arcaico nascesse da un bisogno di semplicità e di autenticità che si portava dentro. È strano quanto la sua raffinatezza di intellettuale di statura europea potesse convivere con questa ricerca di emozioni elementari».
Era un esteta del mondo perduto.
«No, era lui stesso una parte di quel mondo. O almeno così credeva».
Cosa significa oggi il mestiere di fotografo?
«Può voler dire tutto e niente. C´è il mestiere di Corona e quello di Kapuscinki, per fare due esempi agli antipodi».
C´è una differenza?
«Tutti e due devono avere fiuto e sensibilità sviluppate. Ma è dove orientano queste doti che è importante. Kapuscinki non è stato propriamente un fotografo, ma un reporter che ha innalzato il reportage al livello della grandissima fotografia. I suoi scritti li ho visti come meravigliose istantanee».
E di un fotografo come Salgado cosa pensa?
«Posto che non è difficile considerarlo un grande, in lui prevale fortissima la corda estetica. E questo edulcora il risultato»
Ha mai pensato di fare qualcosa di diverso dal fotografo?
«A un certo punto avrei potuto intraprendere la carriera di cineasta. Ma non ho mai rimpianto di averci rinunciato. Sono come un raccoglitore di legna per il fuoco dell´informazione».
Le è mai capitato di fornire legna bagnata?
«No, o almeno non penso. Ho seguito un cammino personale. E mi ritengo. nonostante abbia vissuto come un irregolare, una persona profondamente fortunata. Sa perché non mi ha mai stancato il mestiere? Perché nell´esaltazione di un dettaglio, nella ricerca di un gesto da fissare, ho sempre cercato quel senso originale che spesso crediamo si sia smarrito».
E lo ha trovato?
«Potrebbe essere molto deprimente scoprire che tutto quello che hai fatto è fatuo o inutile. Perciò preferisco immaginare che la fotografia sia stato il solo dono che ho avuto di raccontare la vita».
Senza base musicale?
«Senza accompagnamento, né colore, con la luce del bianco e nero».
di Antonio Gnoli
Da La Repubblica del 30 gennaio 2008
1 commento:
Il bianco e nero di Dondero -e degli infiniti reporter che come lui lo usavano- mette in campo una doppia possibilità di lettura delle immagini:
- l'enfatizzazione del dramma
perchè è certamente meno spettacolare del colore e sembra adattarsi perfettamente alla narrazione dei fatti di guerra come lui stesso sottolinea
«Ho partecipato a molte guerre, mai come un avventuriero, ma spinto dall´indignazione. Ho sempre privilegiato questo sentimento. E sono convinto che le foto più significative per testimoniare questo stato d´animo devono essere in bianco e nero. Il colore distrae. Fotografare una guerra a colori mi appare immorale. Capisco che è una convinzione discutibile».
Per me è molto discutibile cerco di spiegarlo.
- l'estetizzazione del dramma
Il bianco e nero è una astrazione visiva molto più forte del colore poichè la realtà "è" a colori e "tradurla" in toni di grigio è già il primo significativo passagio verso la "messa in scena" della stessa.
Ricordo di avere visto ad una mostra di Nachtwey le infinite prove di stampa che fa fare al suo assistente per riuscire ad ottenere quel dato punto di grigio sulla fronte del bambino sofferente.
Anche Salgado appartiene a questa tipologia di fotografi che tendono all'estetica del dramma,
lo stesso Dondero afferma del fotografo brasiliano:
«Posto che non è difficile considerarlo un grande, in lui prevale fortissima la corda estetica. E questo edulcora il risultato»
-una profezia e un dubbio
Ancora oggi il senso comune (ma non solo) tende a considerare "artistica" la fotografie in biano e nero! Come la mettiamo?
Sono disposto a scommettere che il bianco e nero sia davvero il "futuro" della fotografia. Della fotografia di ricerca però perchè la sua pratica artigianale, ormai alchimia per pochi,la eleva distaccandola,dalla banalizzazione digitale alla ricerca della qualità-particolarità visiva.
Basta andare su flickr,che non è certo roba da museo, e tra le infinità di foto presenti quelle che si differenziano, non solo esteticamente, ma che tendono a sottolineare anche nel nome una differenza, sono comprese in categorie tipo: b/n,pellicola 6x6, holga,foro stenopeico ecc... cioè tutte quelle pratiche "alchemiche" che ci rimandano davvero ad una fotografia d'altri tempi.
Mi sorge un dubbio: è ancora credibile un reportage in bianco e nero?
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Credo che l'immagine di per se sia sempre qualcosa di "altro" rispetto alla realtà, un linguaggio che va padroneggiato con cura nelle modalità di scrittura ma soprattutto in quelle di lettura.
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