giovedì 2 agosto 2007

Mal d'India


"Gli indiani sono gli italiani d'Asia - sentenziò Didier con un sorisetto saggio e malizioso . Si potrebbe dire con altrettanto certezza che gli italiani sono gli indiani d'Europa, ma credo che tu abbia afferrato il concetto. Sia gli indiani sia gli italiani hanno bisogno di una madonna: non possono fare a meno di una dea, anche se la religione gliela nega. Sia in India sia in Italia ogni uomo diventa un cantante quando è felice, e ogni donna una ballerina quando a va a fare la spesa dietro casa. Per questi due popoli il cibo è musica nel corpo, e la musica cibo nel cuore. E le loro lingue... fanno di ogni uomo un poeta, e ammantano di bellezza anche la peggiore banalité. Sono nazioni in cui l'amore fa di un gangster un cavaliere, e di una contadina una principessa, anche se solo per il breve istante in cui ti guardano negli occhi".
da: Shantaram di Gregory David Roberts


E fu a questo punto che mi accorsi del modo assolutamente naturale, ovvio, pacifico con cui il mendicante si collocava nel tessuto della società che intravedevo. E capii istantaneamente che in quella società, in quella cultura non c'è posto per la pietà individuale, non c'è quella dolorosa, disperata carità che lega l'Occidente al naturalmente morituro: né il mendicante, lo sventurato ha pietà di se stesso. I segni della malattia e della miseria non sono "sventure": vengono da lontano, vanno lontano; migrano da vita a vita, certificati dagli interventi degli dèi. Vi può essere pietà cosmica, la coscienza di una universale fatica intemporale ed anonima cui tutti ci dedichiamo e siamo consacrati. E quella assenza di pietà individuale faceva del mondo indiano un luogo tragicamente impervio, pervaso da una drammatica, incomunicabile dolcezza, una indifferenza senza sdegno, senza rimorsi, senza indulgenza.
Questa scoperta mi fece riguardare il mendicante e la sua tattica in modo diverso: mi proposi di non dare elemosine, non solo per sfamare la mia naturale avarizia, quanto per vedere se mi era possibile accettare la miseria, la malattia e la sventura come un evento che, diversamente collocato, ha altro senso che nel nostro mondo. Giacché in India si soffre atrocemente, ma la sofferenza è un segno diverso, ha un senso diverso. Capii che il mendicante contava sui miei sensi di colpa: ma io, coi sensi di colpa ci vado a nozze.

da: Esperimento con l'India di Giorgio Manganelli

L'India è 'tanta'. Tanti i rumori, i suoni, la gente, i sapori, gli odori, i colori gli stimoli che colpiscono i cinque sensi ogni ora del giorno e della notte. E tante e contraddittorie le emozioni e i sentimenti che un viaggio nel continente indiano ti procura.
Impossibile fare il turista in India. C'entri dentro, anche se solo per poco. Catturato, affascinato, ma anche spaventato.
Sono mille e ancora mille, ormai, i volumi in libreria sull'India, ambientati in India, scritti da indiani e non solo. Recentemente ne ho letti due, quelle citati, che vale la pena leggere, diversissimi e contrastanti come l'India, appunto. Quello di G.D. Roberts è un tomo autobiografico di 1200 pagine. Nonostante la mole, nonostante non sia un capolavoro di letteratura scorre via come un film di Bollywood: eterno ma impossibile da mollare a metà, per non perderne la fine. La prima metà del libro in particolar modo, e il suo incontro, da australiano, con il mondo indiano fanno ritrovare chiunque ci sia stato. Con umorismo, spesso e volentieri.
Manganelli, in cento pagine, racconta il suo esperimento con quel mondo. Mai parola, 'esperimento', fu più azzeccata per nominare ciò che l'India impone ai suoi visitatori. E l'aspetto mistico del cliché indiano poco ha a che fare con tale esperimento.

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