martedì 21 agosto 2007

Diario Norvegese. 1

Alesund 20 agosto 2007


L’uomo stava diritto in piedi sulla banchina, pronto davanti all’imbarco, impaziente per l’attesa dovuta alla discesa dei passeggeri che terminavano il loro viaggio ad Alesund. Indossava un paio di pantaloni neri larghi, ma di una foggia elegante, una camicia bianca abbottonata sino all’ultimo bottone ma senza cravatta, una giacca di cotone color paglia. Portava grandi occhiali da sole, anche se così a nord già sul finire di agosto di sole ce n’era poco, almeno per chi era abituato al sole del Mediterraneo; lui chissà da dove veniva.
Dalla tasca della giacca spuntava un romanzo, impegnativo a giudicare dal numero di pagine. Per mano teneva una grande valigia nera, di quelle con le ruote. Doveva essere stato un bell’uomo, lo era ancora nonostante l’età di sicuro oltre i settanta. Lei gli puntò contro la macchina fotografica e con il teleobiettivo gli rubò un ritratto: il profilo del mento magro, anche se la corporatura era un po' robusta, qualche pelo di barba bianca, di chi la mattina si era rasato in fretta, la linea del naso lungo, tagliato diritto. Il ritratto si fermava lì, tra il mento e il principio dello sguardo. L’uomo sembrò non accorgersene. Allora lei puntò di nuovo la sua macchina, questa volta più in basso, su un particolare che l’aveva colpita: i pantaloni, che sin dall’inizio erano sembrati troppo larghi, erano tenuti su da una pesante cintura di cuoio chiusa con una fibbia di metallo, sul genere di quelle texane.
A quell punto erano scesi tutti i passeggeri arrivati alla cittadina famosa perchè un incendio l’aveva completamente devastate nel 1904, per poi essere ricostruita ex novo per volere del re secondo lo stile di gran moda in quell tempo, lo Jugend Style.
L’uomo potè finalmente salire a bordo e lei dietro di lui, senza accorgersi, entrando nella sua cabina, che a quel viaggiatore solitario era stata assegnata quella a fianco della sua. Se ne accurse poco dopo, uscendo di nuovo dal suo alloggio perchè aveva dimenticato di prenotare la cena a bordo.
“La luce della mia cabina non funziona”, la investì lui in inglese.
“Hai infilato la carta magnetica nell’interruttore a fianco della porta?”.
“Sembri una persona intelligente”, le rispose infilando la tessera e scoprendo che la luce si accendeva.
Lei si allontanò, mentre l’uomo le mandava un bacio stampato su due dita in segno di ringraziamento.
Quell’uomo l’aveva incuriosita, diciamolo pure, le era piaciuto. Così a cena si era presentata ansiosa di rivederlo. Ma lui non si era palesato; non aveva del resto l’aria di uno pronto a cenare alle otto in punto, insieme a quel mare di anziani (“vecchi”, avrebbe detto lui, settantenne) in crociera. Anche lei non avrebbe mai immaginato di potersi trovare un giorno su una nave da crociera. Certo, il fatto che quell’albergo natante navigasse di fiordo in fiordo lungo la lunghissima costa norvegese assicurava un’atmosfera differente dallo stile “Love Boat”, fuori dal mondo. E se l’età media a bordo scendeva sotto i settanta, era solo per la presenza di qualche neonato e di qualche sparuto giovane. Molti dei passeggeri erano nordici, con le signore dai capelli ‘tagliati a pentola’, si diceva quando eravamo piccoli, indaffarate tutto il tempo a lavorare a maglia o a punto croce. Poi gli americani, che per tutto il viaggio non si toglievano mai di dosso da appesa al collo la targhetta con il nome e la provenienza: Greg Pear, Ohio; Fred Walker, Texas; Mary Rose Smith, Washington DC….
Quella vacanza era stata una scelta stravagante, quindi una piacevole sorpresa. La nave era partita da Bergen alla volta di Kirkenes, oltre il Circolo Polare Artico. Quelle imbarcazioni erano chiamate ancora, in modo romantico, postali, anche se di qualla tradizione erano rimaste solo le rotte. Ora erano per lo più barche grandi e moderne, per più di 800 passeggeri, turisti che facevano a bordo l’intero percorso o solo una parte, ma anche qualche norvegese che sceglieva quel mezzo di trasporto per spostarsi da una città all’altra. Si navigava lungo i fiordi, attraversando verdi colline che raramente diventavano alte montagne, ma non per questo meno impervie, e brughiera, brughiera, brughiera, il tutto intrecciato al mare. Era quello che Giorgio Manganelli in un suo reportage aveva chiamato il deserto della Norvegia, sebbene la parola ‘deserto’ suonasse cosa strana a chi, meridionale del mondo, pensa questa forma di paesaggio come fatta solo di sabbia e arsua.
Ogni giorno, a volte di notte, si attraccava nei porti di cittadine più o meno grandi che aspettavano ancora il postale, non per le merci che portava con sè, ma per i viaggiatori che scendevano a frotte (ma frotte discrete) per visitare i centri toccati dal percorso o, salendo verso nord, ghiacciai, gruppuscoli di case, terre di frontiera il cui centro d’attrazione era il Polo Nord più che l’Europa.
Ogni volta che lei si era ritrovata in una condizione simile, si rendeva conto di una banalità: il turismo di massa aveva di gran lunga snaturato il piacere, la sorpresa del viaggio come scoperta geografica. Ma il piacere rimaneva nella scoperta di una piccolo, nuova parte di sè che il viaggio continuava a regalare a chi lo intrapprendeva.
Navigando lungo questi pensieri, la cena passò e verso le undici lei si ritirò per la notta, chiedendosi ancora dove era finito il suo vicino di cabina.

2 commenti:

parìPHOTO ha detto...

mi è scoppiata la voglia di una crocera uguale per fare quella esperienza,e vedere i posti da te descritti

Marco M. Lupoi ha detto...

Beh, adesso voglio vedere come continua... e se il bel settantenne finirà nella tua cabina!