giovedì 30 agosto 2007

Capitolo 4


4.

A Santa Fe aveva abitato sua madre, sino alla morta nel gennaio di un paio di anni prima che io lo incontrassi. Non c'ero mai stata, come non ero mai stata in nessun altro posto degli Stati Uniti se non New York. Ma New York, non sono gli Stati Uniti; è New York e basta.
A Santa Fe non c'ero mai stata, quindi, ma faceva parte della mia geografia emotiva e visiva: polvere, sole caldo, tanto caldo da far vibrare la linea dell'orizzonte. Poi i bush che rotolano nel vento. Sabbia e ancora polvere. Una macchina procede diritta e con andatura calma e costante come quella di una nave da crociera. Dentro questa cartolina, ora, avevo una storia da collocare, quella di Ann, la madre di Sam. Era stata una giornalista, come me, come il padre di Sam che lei aveva incontrato quando, crocerossina, aveva lavorato nell'Europa percorsa e devastata dalla Seconda Guerra Mondiale. Era là che aveva cominciato a scrivere e a fotografare con una di quelle Leica che Sam conservava in uno degli scatoloni in cui aveva imballato, riposto e stipato tutta la storia di sua madre e della sua famiglia.
"Insieme a mia madre, sei la persona più elegante che abbia mai conosciuto", mi disse una volta Sam.
Di Ann avevo visto solo una foto che lui si portava sempre dietro in valigia. Un giorno, spostando il suo borsone da cui straripavano i vestiti, era saltata fuori una carpetta di cartoncino. Dentro, tutto l'essenziale per chi, come Sam, aveva scelto di vivere senza casa: fotocopie di documenti e dell'assicurazione sulla vita, una agenda con gli indirizzi degli amici e le persone che aveva conosciuto in giro per il mondo, perché un giorno, chissà, può essere che "ripassi da queste parti". Infine, quella piccola immagine sgualcita in formato cartolina. La signora nella foto doveva già avere una settantina d'anni, capelli lisci e in gran parte ancora neri, pettinati con una riga da un lato e tagliati dritti e decisi qualche centimetro sopra le spalle. Un paio di occhiali neri da sole impedivano di vedere gli occhi, ma il volto magro, il naso affilato, il sorriso bianchissimo e il collo lungo me la fecero immaginare come un'americana di prima scelta, wasp dicono loro. Sicuramente una donna elegante, dai tratti fieri, forse un po' troppo.
Nella foto Ann stava seduta su un divano del suo ranch a Santa Fe, con addosso una giacca colorata, forse messicana. Attorno a lei un paio di sculture, alle sue spalle un batik e altre strani oggetti esotici appesi a quel pezzo di parete che rientrava nell'immagine. Erano, intuii, gli oggetti e i ricordi collezionati in una vita di viaggi: in India, in Birmania, in una Cina ancora poco frequentata dagli occidentali e in lungo e in largo per il Sud America. Di quel piacere per cose che provenivano da lontano, in un epoca in cui, senza internet, voli low cost e quella sorta di rete dell'artigianato mondiale che ha portato tutto ovunque, di quel piacere per il bello Ann ne aveva fatto anche un lavoro. Ad Aspen, in Colorado, dove si era trasferita dopo il divorzio dal marito, portandosi dietro Barney, Sam e Jan, rispettivamente quattordici, sedici anni e diciotto anni, Ann aveva aperto una boutique che era diventato presto uno dei cuori pulsanti della città, meta di acquisti ma anche imprescindibile punto di approdo e di smistamento della vita sociale delle star del cinema e della musica, degli artisti e del bel popolo che frequentava la stazione sciistica più in degli Stati Uniti.
Bella, nonostante gli anni, e altera. Così mi pareva questa donna la quale ben prima che il viaggio, l'avventura e l'indipendenza diventassero una bandiera di emancipazione e libertà, aveva percorso, indipendente e senza paura, mezza mondo. Così me l'aveva raccontata Sam, calcando la mano su quella durezza che a me sembrava la fierezza necessaria per una donna che aveva voluto fare da sè e fare ciò che voleva, per lui probabilmente, era stata solo distanza, mancanza di affetto da parte di una genitrice ruvida, severa e testarda.
Altro aveva saputo di lei leggendo le pagine del libro del suo ex marito, Pete, il padre di Sam. Pete era stato un giornalista del Time Magazine. A 62 anni, quando Sam ne aveva 26, si era tolto la vita a causa di una depressione da cui non riusciva a vedere la risalita. Dieci anni prima, a pochi anni dal divorzio con Ann, aveva scritto un libro Letter to my wife, lamento e tormento di un uomo ossessionato dal male di vivere dentro a cui era completamente calato, incapace di vedere oltre, impossibilitato a vivere oltre l'orizzonte di ventiquattro ore, sopportando la notte solo stordendosi di whisky e azzardandosi ad attraversare le ore del giorno solo imbottendosi di antidepressivi. Da quella missiva lunga più di duecento pagine avevo imparato molte altre cose sul conto di Ann. Oddio, sulla Ann tracciata e descritta da un uomo che era stato da lei cacciato. Qualche anno prima, infatti, Pete aveva confessato alla moglie quella che per un uomo medio italiano di quegli anni sarebbe stata solo una scappatella con un'altra donna, roba da niente, neanche da prendere in considerazione. Pete, uomo fragile e insicuro, aveva dovuto confessarlo alla moglie, forse per sollevarsi dalla responsabilità di quel gesto. E lei in poco tempo aveva troncato il matrimonio. Forse, verrebbe da pensare, usando quella come una scusa per terminare una relazione con un uomo troppo più debole di lei, una zavorra che non era più disposta a trascinarsi dietro.
Come sapevo tutte queste cose? Un po' me le aveva raccontate Sam, un po' le avevo lette nel libro del padre, che il figlio non aveva invece mai letto.
"Robaccia, mi diceva mia madre tutte le volte che le chiedevo di quella sorta di diario pubblicato da mio padre", raccontava Sam.
"Lei non ne voleva sapere. Aveva cancellato mio padre e così anche quel libro per lei non era mai esistito".
Io, più di trent'anni dopo, l'avevo rintracciato su internet, in un negozio di libri usati di New York e in quindici giorni era arrivato fin qui, a Bologna.
(4. Continua)

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