"Alla riscoperta del Giappone perduto"
di Michele Smargiassi
Il Giappone è stato il nostro primo impatto con la modernità orientale: grattacieli e macchine fotografiche, motociclette e turisti a torpedoni interi, simili a noi e diversi da noi, con tutto lo straniamento di vedersi in uno specchio che ci imita senza corrisponderci. Poi è venuta la Cina, poi è venuta l´India, la globalizzazione ha preso il loro volto, e il Giappone improvvisamente è regredito a modernità esotica vintage, sempre un po´ estranea ma, come dire, resa più familiare dalla patina del tempo. Dunque mostrare il Giappone, come fa Francesca Parisini con le sue foto e le sue parole in Tokyo sui miei passi (Pendragon editore, 12 euro), non è far scoprire ma far riscoprire, ripensare un´immagine che già abbiamo archiviata da qualche parte; aggiornarla, ripitturarla perché s´era un po´ scrostata, stinta, all´ombra delle altre tigri asiatiche. Non è viaggio, non è reportage né diario questo librino da "leggere", ma nel senso del pokerista che spulcia le carte una ad una con lentezza: è un lavoro di manutenzione iconografica, che richiede al lettore il tempo giusto. Niente fretta. Lavoro di manutenzione dello sguardo, lavoro di sguardi: Francesca sostanzialmente vede, e indica quel che vede, come potrebbe fare una compagna di viaggio seduta sul sedile a fianco del taxi. Vede anche con le parole, vede anche le parole (il giapponese è per lei soprattutto "una lingua bella da vedere"); la divisione del lavoro tra testo e immagini le viene facile: parafrasando Man Ray, fotografa quel che non può raccontare e racconta quel che non può fotografare. Nei brevi testi inframmezzati che non raddoppiano mai le immagini non c´è lo stupore ingenuo della scoperta ma neppure la noia del già visto: dolcemente, ci conferma o ci smentisce un luogo comune qua, corregge uno stereotipo là, ne asseconda ironicamente un altro: il sushi, il nitore profumato dei taxi, la cortesia, l´ordinata anarchia urbanistica. La macchina fotografica la segue come un cagnolino, a volte scodinzola di eccitazione (e la foto viene mossa) a volte si ritrae un po´ spaventata (e i colori si fanno lividi). Francesca Parisini non ha una teoria della fotografia, ha una fotocamera. È una fotografa (ma perché nessuno vuole più farsi chiamare fotografo?) ma soprattutto fa fotografie. Il suo libro non è patinato e anche le fotografie della mostra di cui è il souvenir (fino al 22 ottobre all´Aemilia Hotel di via Zaccherini 16) non lo sono, escono direttamente dalla stampante, perché Francesca ama la carta ruvida su cui da anni scrive come giornalista. Da Tokyo è tornata con un esperimento sul mestiere di guardare dal vero e di raccontare il guardato. Un esperimento sull´esperienza, dice lei. Una cosa che la presunta civiltà del simulacro non riesce ancora a simulare bene. da Repubblica Bologna del 21 ottobre 2008

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Coppie che danzano, un gruppo di seminaristi, un bambino che sorride reggendo tra le braccia due bottiglie, gente che dorme, che prega, che pensa, che sogna - soprattutto che sogna, l'universo di Cartier-Bresson è popolato di sognatori, colti in quell'istante fugace di vacanza, in cui possono abbandonarsi meglio e come disarmati: spigolate nelle distese planetarie, queste immagini che un particolare localizza e data esattamente - una cassetta delle lettere, un'insegna, una iscrizione, un'uniforme - hanno tutte lo stesso sapore singolare di quotidianità, come agli occhi di Giacometti nello spazio esiguo dell'atelier una sedia, un lampadario, una mela sulla tavola, un uomo in piedi o un volto.