domenica 25 ottobre 2009

Aspetta, Maria!


Maria deve aspettare. E l’attesa è la cosa che le è meno congeniale. Del resto, “tu sei una che ha sempre fatto tutto da sola”, le dice un amico. E se una fa da sola, decide lei come e quando.

Maria guarda l’amico e un po’ non capisce. Fa da sola perchè fa da sola, non per scelta, non per mancanza. Perchè le è congeniale, quello sì.

Maria aspetta un figlio, ma poco portata com’è all’attesa, lo partorisce di sei mesi. E allora deve imparare ad aspettare che il figlio, anzi la figlia, nasca una seconda volta.

Maria, a dispetto del nome, non è una che s’immola sull’altare della maternità. “Alla mia età non si fanno figli, non ci si innamora”, sostiene tra le lacrime, una tazza di tè e la prima ecografia. Lei, invece, c’è cascata in tutte e due le reti. Si è innamorata di Pietro e sostiene che non potrà mai più fare senza di baciargli il collo. Ma basta aspettare, anche lì, e Pietro “si scioglie nel fango di una pozzanghera”. Di Pietro è rimasta incinta, e si tiene il figlio anche se Pietro “non se la sente di fare un figlio perchè ne ha già uno”.

Sono entrata al cinema per “Lo spazio bianco” di Francesca Comencini molto prevenuta. Mi avevano detto che il film era bello. Però un film italiano..... su una quarantenne che fa un figlio......poi quell’orrida recensione di Escobar sul Domenicale del Sole24Ore di oggi, che pur parlandone bene, ammoscerebbe l’entusiasmo al cinefilo più bulimico: tutta una questione d’amore, aulica, retorica. Invece Francesca è la seconda Comencini che mi sorprende questa settimana. Maria/Margherita Buy è un personaggio riuscito perchè è laica, perchè al grande medico che le parla di attesa e speranza quando le deve spiegare che sua figlia nell’incubatrice è in pericolo di vita, lei chiede di fare il suo mestiere, di usare il suo linguaggio, che è il linguaggio scientifico. Di speranza e attesa parlino i preti, che fanno quel mestiere lì.

Maria deve aspettare la seconda nascita di sua figlia (o la morte, “ma mica posso andare in giro a dire che sto aspettando la morte di mia figlia”), ma rimane Maria: i suoi film, i suoi libri, il sesso, il suo mestiere di insegnante. La fortuna, forse, è quella di essere una madre con le rughe, senza la retorica della maternità. Viva, soprattutto se è un film italiano a ascegliere questa strada.

Maria va al cinema da sola. Io da sola ora vado a vedere “Lebanon”, tutta un’altra storia. Poi vi dirò.

mercoledì 21 ottobre 2009

Molla, Manfred!


È la paura, la fregatura di tutto. Poi l’orgoglio, dietro cui si nasconde la paura, ovvio. E il risentimento: quello che è stato (la madre che scappa con un americano e li lascia lì, tre figli soli con il padre), attraverso cui Manfred rilegge il rapporto con le altre donne della sua vita.

Manfred è un montanaro. Duro come la pietra. Parla poco e se parla taglia, dà colpi d’accetta. Marina che – lo dice il nome – con quei monti non c’entra niente, c’arriva con un figlio appena nato. Un figlio che è venuto, cercato ma senza tanta convinzione, forse. Marina è una come noi, come me: non è venuta al mondo solo per fare figli, come le nostre madri. Allora fa fatica, si sente inadeguata, ostaggio di quel bimbo che piange sempre.

I due si incontrano. Si scontrano. Poi si rincontrano quindici anni dopo. Quando mollano, quando Manfred molla. Quando la smette di tenere duro, di difendere chissà cosa. No, si sa cosa: la sua paura di essere tradito, mollato un’altra volta. Di farsi male. Salvo poi farsi male da solo, più male ancora.

È un libro bellissimo quello di Cristina Comencini. S’intitola “Quando la notte”. Anche la copertina è bellissima: due mani nodose su una schiena nuda di donna. È una storia d’amore, è vero. Come se leggere storie d’amore implicasse la necessità di chiedere scusa agli altri che fingono di non leggerle. (È la paura la fregatura di tutto, ricordi?).

Ci sono lunghi periodi in cui divoro libri, ed altri in cui ciò non accade: mi distrae dai miei pensieri. Oppure non trovo libri che entrano in sintonia coi miei pensieri. “Quando la notte” l’ha fatto: all’inizio con poca convinzione, alla fine li ha travolti, ci si sono rispecchiati.

È un piccolo romanzo dalla scrittura secca. Pochi dialoghi; lo spazio è soprattutto per quello che i protagonisti si dicono, ma non dicono. Non è melenso, magari struggente. È un corpo a corpo. Una battaglia, come ogni costruzione d’amore. Non l’amore che costruisce una vita, un futuro, una famiglia. Un amore più sublime, per niente ideale, anzi carnale, ma che rimane lì, capace di passeggiarti a fianco per quindici anni.

“Credo di avere scritto un libro romantico – racconta Cristina Comencini in una intervista – anche se non in senso classico. C’è un ritorno al primario, all’istinto, all’idea che l’amore è un campo di battaglia”. Ancora: “L’amore tra un uomo e una donna non è dolce. Lo si conquista mediante l’attraversamento di una grande rabbia di genere. L’amore non è dolce, almeno non lo è all’inizio”.

A me son sempre piaciuti un sacco i campi di battaglia....