domenica 26 luglio 2009

gite letterarie

Di questi tempi fatico a leggere lunghi romanzi. Preferisco raccontini, scritti da consumare in un fiato. È come se avessi bisogno di muovermi spesso, di prendere aria continuamente, di cambiare panorama. Come se non riuscissi a stare nello stesso posto per più di qualche giorno. Succede.
Così pure fatico a scegliere mete a lunga scadenza: quando arriva la voglia di partire, cerco il biglietto più economico per la meta più appetibile al momento.
Mi è capitato, allora, di afferrare al volo due librini. Il primo, “Puer aeternus” di James Hillman, lo avevo in casa da tempo, regalo di una amica. Il secondo, “Testi segreti” della Duras, l’ho miracolosamente trovato una calda domenica pomeriggio a casa di un ex amore, sommerso tra libri di politica, filosofia e amenità varie. Lui non legge letteratura, non sia mai, e anche quei tre brevi racconti – a quanto si evince dalla dedica – sono lì solo perché il dono di una ex fidanzata, nell’agosto del ’95.
Il testo di Hillman si compone di due scritti ma quello interessante è il primo, dedicato al tradimento. Non parliamo di ‘corna’, volgarmente dette. Oppure sì, anche, ma alla lontana. E comunque l’interesse non sta lì. Il discorso parte da una storiella ebraica evocativa. Il babbo ìncita il figlio a lanciarsi a corpo morto da altezze sempre più grandi, tanto – assicura – ci sarà sempre lui ad accoglierlo tra le braccia. Fino ad un certo punto, però, perché quando il ragazzino si lancia dal gradino più alto, il babbo si scansa e lo fa franare rovinosamente. Che cosa significa il tradimento per il padre? Spiega Hillman: “La capacità di tradire gli altri è affine alla capacità di guidare gli altri. Una paternità compiuta le possiede entrambe”. Come fare allora i conti con il tradimento, insito di necessità in ogni forma d’amore, e poi con la fiducia? Tra le reazioni possibili, interessante il passo sul cinismo, ovvero il TRADIMENTO DI SE’.
Dei tre scritti segreti della Duras l’ex fidanzata dell’ex amore puntò l’attenzione su quello intitolato “La malattia della morte”, storia di un uomo che non aveva mai amato. Mi è piaciuto, soprattutto nella chiusura. “Avete potuto vivere questo amore nel solo modo possibile per voi, perdendolo prima che si realizzasse”.
Altro non riesco a dire. Se non consigliare i due librini a chi è nello spirito di veloci ma appaganti gite fuori porta.

venerdì 10 luglio 2009

la separazione del maschio

Lo scorso inverno ho comprato un libro perché mi piaceva il suo titolo “La separazione del maschio” (autore, Francesco Piccolo). Intuivo, che si parlava d’amore, vedevo che ne parlava un uomo, immaginavo – dal titolo – che questo si sarebbe messo a disquisire su certa schizofrenia con cui molti di noi, non solo maschi a dire il vero (ma qui interessante era il loro punto di vista), vivono la propria vita sentimentale.
Per molti mesi il libro è rimasto nella pila accanto al letto tra quelli che prima o poi avrei affrontato. Un amico scrittore, infatti, mi disse che era una boiata. Poi, recentemente, una amica alle prese con la necessità di capire la solita storia complicata, mi ha detto che il volume era interessante. Allora l’ho preso in mano, pensando che poteva essere una incursione nella stanza dei bottoni: capire come la pensano i maschi, come la vivono.
Alle prime pagine il libro mi è parso così così, poi curioso, poi volevo vedere dove andava a parare.
È la storia di un tale, che parla in prima persona, sposato e con una figlia. Parallelamente tiene su molte storie, te le racconta tutte; il libro passa per vagamente erotico, ma non c’è pezza, per me, l’erotismo o lo vivi o sembra ginnastica. Le sue storie, lui te le spiega così: è attratto dai culi delle donne, si innamora sempre di tutte e il suo amore non è come una torta, che se sono in dieci quelli che devono mangiarci, ne hanno tutti un decimo, ovvero una piccola fetta. La sua capacità di amare è una e trina, diciamo così: rimane sempre compatta, indivisibile, solo che si sposta da un soggetto a un altro, da una cosa a un’altra, anche nel giro di breve tempo, senza togliere nulla all’altro. Lo aiuta in questo, l’assoluta mancanza del senso di colpa (con cui, peraltro, noi cattolici continuiamo nonostante tutto a dover fare i conti, sebbene gli analisti sostengano che oggi è il senso di inadeguatezza il più citato sul lettino).
Poi però la moglie lo lascia, non perché scopre tutto. Perché si fa trovare dal marito con un altro e il marito non le dice niente, niente le rimprovera. Il dramma non sta qui, per il nostro eroe, ma nel fatto che lui pensava di essere onnipotente, di tenere insieme il tutto: amare la moglie, crescere la figlia, vivere la sua sfrenata curiosità sessuale. Invece il tutto precipita, perché c’è qualcuno che agisce fuori da quanto lui aveva previsto, calcolato.
Boh, non so. Il libro non mi ha aggiunto niente. Speravo almeno che mi desse su i nervi, visto che non mi ha fatto capire come e chi e quando spinge i bottoni in quella benedetta stanza. Invece, neanche quello. Forse rimane un filino di ipocrisia: il bisogno di stare dentro una famiglia rassicurante e l’impossibilità di vivere una vita come la si vuole vivere, al di là dei ‘si deve fare’ e ‘come si deve essere’.
Mi rimane, molto personalmente, l’utopia di riuscire a immaginare un amore che non sia possesso, egoismo, accumulo, antidito alla paura, all’inadeguatezza. “Non è stato mai mio, non è stato mai nostro”, dice Meryl Streep sulla tomba di Robert Redford in “la mia Africa”. http://www.youtube.com/watch?v=zMRRXqtKRMI&feature=related