Torna a grande (grandina) richiesta la storia di Sam. Se la goda chi l'ha apprezzata.
7.
Avevo vent’anni quando me ne andai per un po’ ad Hong Kong da mio padre. Lui lavorava lì per un quotidiano inglese, da quando si era licenziato dal Time Magazine e separato da mia madre. Io avevo finito la scuola e, neanche a dirlo, non sapevo che fare della mia vita. Così lui mi trovò un lavoro presso il suo giornale come fattorino. Guadagnavo un centinaio di dollari al mese, una miseria, soprattutto perchè mi facevano correre da una parte all’altra della città. Non avevo però molte spese a cui fare fronte, visto che stavo con lui in un appartamento bellissimo, sulle pendici di una collina. Dal terrazzo si vedeva tutta la città, un vero incanto. Ma se buttavi l’occhio appena dove finivano i tuoi piedi, vedevi che era pieno di topi schifosi, grandi così.
Io e mio padre finivamo il lavoro alla stessa ora, attorno alle cinque del pomeriggio, e insieme andavamo al circolo della stampa, da dove passavano tutti i corrispondenti dei giornali stranieri impegnati in Oriente. Ci piaceva stare insieme, anche se solo per bere whisky e soda, e spesso ci sbronzavamo. Ad una certa ora lui se ne tornava a casa e io rimanevo lì con i suoi amici giornalisti. Mio padre qualche volta si portava a casa una puttana, non però se sapeva che io sarei tornato presto a casa. Io no. A me non è mai capitato, non mi è mai piaciuto fare sesso in quel modo.
Un giorno ero nell’ufficio di mio padre, stavamo facendo una pausa bevendo caffè quando qualcuno bussò alla porta. Era il mio amico Raymond che era venuto a cercarmi dall’America fin là, in Estremo Oriente. Noi c’erano e-mail e non c’erano telefoni cellulari in quel tempo. Raymond era partito dal Colorado sapendo solo che ero a Hong Kong da mio padre e che mio padre lavorava per un quotidiano inglese. Tuttavia non era poi stato così difficile trovarmi.
Appena lo vide entrare, mio padre lo squadrò di traverso: il mio amico si era presentato con un cappello da cowboy in testa. Che ci faceva un cowboy ad Hong Kong?
Andammo a cena tutti e tre assieme quella sera e alla fine della serata mio padre se ne uscì così: “Raymond, ho cambiato idea su di te”. Nonostante quella presentazione così fuori luogo, era riuscito a conquistarlo, tale era la forza di seduzione di Raymond. E lo stesso fascino, qualche giorno dopo, Raymond lo usò su di me.
“Ehi, amico, perché non ce ne andiamo a Bali? Dicono che sia un posto bellissimo e da qui è davvero uno sputo”.
Partimmo. Ma una volta là, i miei soldi, quei pochi guadagnati al giornale, finirono in un lampo. Mi dissero che lì di fronte, in Australia, non era difficile guadagnare e guadagnare bene. Ci andai ed ebbi fortuna. In pochi giorni trovai uno dei migliori lavori a cui può aspirare uno che cerca velocemente di fare soldi: tre mesi su un peschereccio, come mozzo.
Si dormivano al massimo quattro ore per notte e il lavoro cominciava ancora prima dell’alba. Il barcone pescava a strascico e quando si tiravano su le reti, dentro c’era di tutto. A volte anche qualche squalo che andava ucciso col fucile prima che il pescato fosse rovesciato dalla rete dentro l’enorme piscina sulla barca, per poi venire da qui ripescato e lavorato dai marinai. Finite quelle operazioni, a me e ad altri tre mozzi rimaneva il compito di ripulire il peschereccio da tutte le schifezze rimaste dalla lavorazione del pesce. Per farlo avevamo ciascuno una spazzola con cui grattare a forza di olio di gomito il pavimento di legno. Un giorno la mia spazzola mi scappò in mare. Klaus, il secondo del capitano, un tedesco con l’aria da Gestapo per via dei capelli tagliati quasi a zero, venne da me e mi disse: “Valla a raccogliere”.
“Ehi, Klaus – gli faccio io -, non ci penso neanche: è pieno di squali laggiù”.
Era vero. Poteva capitare che l’imbarcazione si dovesse fare largo tra due ali di squali che correvano ai suoi lati. Klaus non volle sentire ragioni. Del resto, io non gli ero mai andato molto a genio. Mi sollevò senza neanche tanta fatica con l’idea di buttarmi in mare. Io riuscii ad aggrapparmi con entrambe le mani al parapetto, ma arrivò il capitano e mi staccò le dita dalla presa una ad una, cosicché Klaus riuscì nel suo intento. La spazzola intanto aveva preso a galleggiare lontano e mi ci volle un po’ per raggiungerla e quindi per tornare indietro, con sempre quella fottuta paura che uno squalo mi si attaccasse a una gamba.
In quei tre mesi, tuttavia, riuscii a guadagnare un bel po’ di soldi. E gli amici, ai quali avevo detto che partivo per Hong Kong e che ci sarei stato al massimo nove mesi, mi rividero solo dopo tre anni.Erano gli anni in cui io e mia madre non avevamo buoni rapporti, anzi non ne avevamo affatto, per cui lei non si aspettava da me nessuna notizia. A mio padre, invece, ogni tanto spedivo una cartolina.
Io e mio padre finivamo il lavoro alla stessa ora, attorno alle cinque del pomeriggio, e insieme andavamo al circolo della stampa, da dove passavano tutti i corrispondenti dei giornali stranieri impegnati in Oriente. Ci piaceva stare insieme, anche se solo per bere whisky e soda, e spesso ci sbronzavamo. Ad una certa ora lui se ne tornava a casa e io rimanevo lì con i suoi amici giornalisti. Mio padre qualche volta si portava a casa una puttana, non però se sapeva che io sarei tornato presto a casa. Io no. A me non è mai capitato, non mi è mai piaciuto fare sesso in quel modo.
Un giorno ero nell’ufficio di mio padre, stavamo facendo una pausa bevendo caffè quando qualcuno bussò alla porta. Era il mio amico Raymond che era venuto a cercarmi dall’America fin là, in Estremo Oriente. Noi c’erano e-mail e non c’erano telefoni cellulari in quel tempo. Raymond era partito dal Colorado sapendo solo che ero a Hong Kong da mio padre e che mio padre lavorava per un quotidiano inglese. Tuttavia non era poi stato così difficile trovarmi.
Appena lo vide entrare, mio padre lo squadrò di traverso: il mio amico si era presentato con un cappello da cowboy in testa. Che ci faceva un cowboy ad Hong Kong?
Andammo a cena tutti e tre assieme quella sera e alla fine della serata mio padre se ne uscì così: “Raymond, ho cambiato idea su di te”. Nonostante quella presentazione così fuori luogo, era riuscito a conquistarlo, tale era la forza di seduzione di Raymond. E lo stesso fascino, qualche giorno dopo, Raymond lo usò su di me.
“Ehi, amico, perché non ce ne andiamo a Bali? Dicono che sia un posto bellissimo e da qui è davvero uno sputo”.
Partimmo. Ma una volta là, i miei soldi, quei pochi guadagnati al giornale, finirono in un lampo. Mi dissero che lì di fronte, in Australia, non era difficile guadagnare e guadagnare bene. Ci andai ed ebbi fortuna. In pochi giorni trovai uno dei migliori lavori a cui può aspirare uno che cerca velocemente di fare soldi: tre mesi su un peschereccio, come mozzo.
Si dormivano al massimo quattro ore per notte e il lavoro cominciava ancora prima dell’alba. Il barcone pescava a strascico e quando si tiravano su le reti, dentro c’era di tutto. A volte anche qualche squalo che andava ucciso col fucile prima che il pescato fosse rovesciato dalla rete dentro l’enorme piscina sulla barca, per poi venire da qui ripescato e lavorato dai marinai. Finite quelle operazioni, a me e ad altri tre mozzi rimaneva il compito di ripulire il peschereccio da tutte le schifezze rimaste dalla lavorazione del pesce. Per farlo avevamo ciascuno una spazzola con cui grattare a forza di olio di gomito il pavimento di legno. Un giorno la mia spazzola mi scappò in mare. Klaus, il secondo del capitano, un tedesco con l’aria da Gestapo per via dei capelli tagliati quasi a zero, venne da me e mi disse: “Valla a raccogliere”.
“Ehi, Klaus – gli faccio io -, non ci penso neanche: è pieno di squali laggiù”.
Era vero. Poteva capitare che l’imbarcazione si dovesse fare largo tra due ali di squali che correvano ai suoi lati. Klaus non volle sentire ragioni. Del resto, io non gli ero mai andato molto a genio. Mi sollevò senza neanche tanta fatica con l’idea di buttarmi in mare. Io riuscii ad aggrapparmi con entrambe le mani al parapetto, ma arrivò il capitano e mi staccò le dita dalla presa una ad una, cosicché Klaus riuscì nel suo intento. La spazzola intanto aveva preso a galleggiare lontano e mi ci volle un po’ per raggiungerla e quindi per tornare indietro, con sempre quella fottuta paura che uno squalo mi si attaccasse a una gamba.
In quei tre mesi, tuttavia, riuscii a guadagnare un bel po’ di soldi. E gli amici, ai quali avevo detto che partivo per Hong Kong e che ci sarei stato al massimo nove mesi, mi rividero solo dopo tre anni.Erano gli anni in cui io e mia madre non avevamo buoni rapporti, anzi non ne avevamo affatto, per cui lei non si aspettava da me nessuna notizia. A mio padre, invece, ogni tanto spedivo una cartolina.
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