domenica 5 ottobre 2008

Fotografia e Psicoanalisi

Fotografo sarà dunque colui che, attraverso gli infiniti oggetti offerti alla sua curiosità, si insinua con un istinto sicuro "tra un atto e l'altro", per citare Virginia Woolf: abbastanza sciolto, abbastanza leggero, abbastanza sottile per evitare i luoghi, i momenti o le circostanze in cui la vita si condensa o si annoda con eccessiva forza o eccessiva evidenza. Se non evitasse tutto questo, potrebbe ricavarne solo qualche frammento di storia, un pezzo d'archivio, un saggio di moda o un esempio aneddotico. Quello a cui mira è invece la normalità quotidiana, la bonaccia della vita, non ciò che si distingue ma ciò che si somiglia. Poeta dell'identico, non del diverso. Coppie che danzano, un gruppo di seminaristi, un bambino che sorride reggendo tra le braccia due bottiglie, gente che dorme, che prega, che pensa, che sogna - soprattutto che sogna, l'universo di Cartier-Bresson è popolato di sognatori, colti in quell'istante fugace di vacanza, in cui possono abbandonarsi meglio e come disarmati: spigolate nelle distese planetarie, queste immagini che un particolare localizza e data esattamente - una cassetta delle lettere, un'insegna, una iscrizione, un'uniforme - hanno tutte lo stesso sapore singolare di quotidianità, come agli occhi di Giacometti nello spazio esiguo dell'atelier una sedia, un lampadario, una mela sulla tavola, un uomo in piedi o un volto.
Il problema è dunque questo: da dove nasce, in questo identico, il suo gesto del singolare. Walter Benjamin ha paragonato una volta la fotografia alla psicoanalisi. La fotografia si informa, così dice, sull'inconscio della vita comune come la dottrina freudiana sulle pulsioni inconsce. La sua osservazione coglie un problema di ordine fisico. L'istantanea ci svela un aspetto della realtà che coscientemente, e per così dire fisiologicamente, non abbiamo mai visto.
Ma la possibilità tecnica di suddividere ad infinitum il movimento nel tempo ci induce anche a una fantasticheria di ordine metafisico. Dove e quando, esattamente, il mondo si coglie? Si sono potute rifiutare le argomentazioni di Zenone, ma non si rifiuta una fantasticheria a cui la fotografia ha oggi dato corpo. nel tessuto delle apparenze esistono dunque discontinuità infime attraverso cui, "tra un atto e l'altro", l'occhio del fotografo si insinua e crede di scoprire senso? Esistono momenti in cui si forma una combinazione di elementi che sembra dipendere da un ordine intellegibile? Possono essere l'incontro di qualche tratto dominante in una configurazione aleatoria, l'incrociarsi di un uomo che cammina e di un oggetto inanimato, o semplicemente l'accordo fugace di un'ombra e di una superficie luminosa.
Una simile metafisica postulerebbe che il mondo visibile celi un senso persino laddove i nostri occhi non distinguono nulla. E se esiste un senso delle pulsioni come la psicoanalisi ci insegna, esiste anche, in questo "incosciente dello sguardo" che la fotografia rivela, un continente da scoprire. E il fotografo accorto sarebbe colui che, al pari dell'analista accorto, possiede quella "attenzione fluttuante" che Freud raccomandava ai suoi discepoli.
Di quel che si presenta al suo sguardo egli non deve privilegiare nulla a priori, deve lasciare che si concatenino liberamente le cause e gli effetti del mondo visibile, mettere tra parentesi il proprio gusto, il proprio giudizio, non "focalizzare" nulla. E' solo allora che potrà trarre dal reale - senza averlo alterato - quello che, in apparenza insignificante, si rivelerà in seguito come il più ricco di significati.


da: Jean Clair

Henri Cartier-Bresson tra ordine e avventura

Abscondita

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