Estratto dal Corriere della Sera dell'8 novembre 2007
di Claudio Magris
La Moldava sfocia anche nella Senna; commentando ed evocando la singolare simbiosi culturale franco-céca del primo Novecento, lo scrittore Karel Capek scriveva, ricordando il suo soggiorno parigino del 1911: «Sulla Senna, sulla Moldava, si trova il più bel luogo del mondo». Non è certo strano che nei primi decenni del Novecento anche poeti, intellettuali e artisti praghesi si recassero, come tanti altri dei più vari Paesi del mondo, a Parigi, «metronomo del ritmo della creazione collettiva europea », come la definiva Karel Teige nel Manifesto del poetismo del 1928.
Tra la fine dell'Ottocento e la conclusione della Prima guerra mondiale — ma anche sino all'invasione nazista — Praga è stata periferia e centro del mondo; una capitale dello spirito, avvolta nell'ombra e in un'insicurezza vitalmente esplosiva. Città magica, come l'ha chiamata Angelo Maria Ripellino; città bloccata dalle proprie contraddizioni, che peraltro erano la sua essenza, e che ha saputo fare di questo suo malinconico blocco un osservatorio delle contraddizioni del mondo, una stazione meteorologica dell'apocalissi che stava piombando sull'Europa e in generale sull'Occidente. Città céca dell'impero absburgico con una minoranza a lungo egemone di lingua tedesca costituita a sua volta in buona parte da ebrei, custodi di un patriottismo tedesco che si sarebbe ritorto contro di loro quando l'antisemitismo germanico li avrebbe ricacciati — sradicati come erano dal contesto maggioritario céco — in una terra di nessuno. Da questo stallo, condizione di morte, sarebbe nata una grande letteratura, in céco e in tedesco, che ha espresso come poche altre, con visionaria potenza fantastica e spettrale precisione geometrica, il vicolo cieco imboccato dalla storia occidentale. È ovvio pensare a Kafka, ma quest'ultimo è la punta di un ricchissimo, variegato iceberg austro-tedesco-céco- ebraico, che comprende non solo la letteratura ma pure le arti figurative e le poetiche dell'avanguardia in generale. L'incertezza esistenziale, a Praga, induceva a scrivere, a creare, a inventare un luogo di grottesca identità: «Come, lei è di Praga e non ha scritto alcun romanzo?», chiedeva stupito in treno, secondo una famosa battuta, un viaggiatore al suo occasionale vicino appena saputa la sua provenienza.
Da Praga, odiosamata madre e matrigna, si fuggiva, per recidere il soffocante e vitalmente necessario cordone ombelicale. Ma a Parigi questa fuga diviene radicamento, rinnovamento della stessa cultura francese, creazione concomitante di una nuova cultura. La grande tradizione praghese ha resistito, specie quale sotterranea dissidenza, sino alla Primavera di Praga stroncata nel '68 e sino alla liberazione dell'89. Oggi un adeguamento coatto al modello occidentale rischia di cancellare la plurinazionale civiltà mitteleuropea, di cui Praga è stata un, anzi il, cuore. Forse, per ritrovare quella creatività — surreale, grottesca, medusea, mortale e rigeneratrice — di Praga magica bisogna ripartire da quegli anni parigini, in cui Praga esisteva più sulla Senna che sulla Moldava e i cui fermenti creativi sarebbero anche oggi un anticorpo essenziale per la vitalità dell'Europa e della sua cultura.
Le foto sono mie. Aprile 2007
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