Di certa fotografia ciò che mi affascina, anzi mi fa quasi buona invidia, è l'attitudine alla catalogazione, la costanza a seguire e riprodurre un tema, sempre quello, non per ossessione o alambicco filosofico, ma per necessità di conoscere, collezionare, schedare l'esistente. Fino al 19 aprile il Museo Morandi di Bologna ospita la mostra "Bernd & Hilla Becher al Museo Morandi": 165 immagini dei coniugi tedeschi raggruppate in 14 Tipologie.
Chi affronta le foto dei Becher senza saperne la storia può rimanerne freddo. Hilla, che ha 74 anni e che due anni fa è rimastra vedova di Bernd, a Bologna ha raccontato la sua storia. Bernd era nato nel '31 a Siegen, paesaggio industriale della Germania. Sin da bambino, quel paesaggio in bianco e nero, il bianco del cielo e il nero dell'acciaio di silos, altiforni, ciminiere, aveva immaginato di dipingerlo. Fino a quando, studente, conobbe Hilla, studentessa e fotografa. E i due cominciarono a fotografarlo. I primi scatti sono del 1959. "Non sapevamo certo dove saremmo da lì arrivati", racconta oggi Hilla a proposito delle loro serie che hanno fatto il giro del mondo, dei musei più blasonati, dei libri di storia dell'arte contemporanea, della fotografia e dell'architettura. Dal suo racconto si capisce che, in un certo senso, sono serie involontarie: uno scatto, poi l'altro, poi un'altro ancora. Messi uno accanto all'altro, sono diventate tipologie: i gasometri, le torri di raffreddamento e così via. Le foto sono tutte quasi identiche e così diverse se le si guarda con lo spirito dei Becher, che è quello dell'entomologo, del biologo, di Linneo, che al solo nominarlo Hilla si illumina. "Sono famiglie di somiglianze e diversità - dice - come le immagine di fauna e flora dei libri di storia naturale dove le piante sono accostate per vederne similitudini e divergenze e per capire che cosa le ha determinate".
Hilla racconta che per avere quelle immagini (il soggetto sempre rigorosamente al centro dello scatto, tutto in bianco e nero, sullo sfondo di un cielo opaco, mai un'ombra, mai una nuvola, come fossero immagini prese tutte allo stesso momento e nello stesso luogo e non a distanza di decenni, in Germani come negli Stati Uniti), per avere quelle immagini, dicevo, Hilla racconta che lei e Bernd hanno azzerato ogni coinvolgimento emotivo e resistito ad ogni tentazione atmosferica: la primavera, un cielo al tramonto, una luce particolare. E' il rigore del catalogatore, del resto, dell'entomologo.
Ancor prima che a Bologna, questa mostra l'avevo vista nell'agosto scorso al Guggenheim di Los Angeles. Accanto a quella dei Becher c'era la mostra di August Sander, a suo modo un collezionista di tipi anche lui. Lui, però, collezionava tipi umani, divisi per mestiere, categoria sociale. Una sorta di fisiognomica. Nel fotografare zingari e preti, poliziotti e donne delle pulizie, maniscalchi e bohemienne, gli capitarono davanti alla macchina fotografica i primi nazisti. E lui a poco a poco capì che quelli non erano solo militari; intuì, attraverso la catalogazione, l'orrore.
Il fascino, allora, sta proprio qui: nella costanza, nella perseveranza di scegliere uno scopo e di farselo proprio. E quella che può apparire un'ossessione sul particolare si trasforma nella capacità di leggere, per suo tramite, una grande storia generale.
Ci sarebbe anche la storia dei Becher da raccontare. Di questa signora con la frangetta e il caschetto bianco e grigio e di suo marito. Insieme, uniti come il guscio di un uovo che non ha punti di giuntura, hanno creato una cosa tutta loro, hanno espresso la loro unione singole e personale, in un linguaggio che tutto il mondo conosce con il loro nome. Ma questa è un'altra storia.
Chi affronta le foto dei Becher senza saperne la storia può rimanerne freddo. Hilla, che ha 74 anni e che due anni fa è rimastra vedova di Bernd, a Bologna ha raccontato la sua storia. Bernd era nato nel '31 a Siegen, paesaggio industriale della Germania. Sin da bambino, quel paesaggio in bianco e nero, il bianco del cielo e il nero dell'acciaio di silos, altiforni, ciminiere, aveva immaginato di dipingerlo. Fino a quando, studente, conobbe Hilla, studentessa e fotografa. E i due cominciarono a fotografarlo. I primi scatti sono del 1959. "Non sapevamo certo dove saremmo da lì arrivati", racconta oggi Hilla a proposito delle loro serie che hanno fatto il giro del mondo, dei musei più blasonati, dei libri di storia dell'arte contemporanea, della fotografia e dell'architettura. Dal suo racconto si capisce che, in un certo senso, sono serie involontarie: uno scatto, poi l'altro, poi un'altro ancora. Messi uno accanto all'altro, sono diventate tipologie: i gasometri, le torri di raffreddamento e così via. Le foto sono tutte quasi identiche e così diverse se le si guarda con lo spirito dei Becher, che è quello dell'entomologo, del biologo, di Linneo, che al solo nominarlo Hilla si illumina. "Sono famiglie di somiglianze e diversità - dice - come le immagine di fauna e flora dei libri di storia naturale dove le piante sono accostate per vederne similitudini e divergenze e per capire che cosa le ha determinate".
Hilla racconta che per avere quelle immagini (il soggetto sempre rigorosamente al centro dello scatto, tutto in bianco e nero, sullo sfondo di un cielo opaco, mai un'ombra, mai una nuvola, come fossero immagini prese tutte allo stesso momento e nello stesso luogo e non a distanza di decenni, in Germani come negli Stati Uniti), per avere quelle immagini, dicevo, Hilla racconta che lei e Bernd hanno azzerato ogni coinvolgimento emotivo e resistito ad ogni tentazione atmosferica: la primavera, un cielo al tramonto, una luce particolare. E' il rigore del catalogatore, del resto, dell'entomologo.
Ancor prima che a Bologna, questa mostra l'avevo vista nell'agosto scorso al Guggenheim di Los Angeles. Accanto a quella dei Becher c'era la mostra di August Sander, a suo modo un collezionista di tipi anche lui. Lui, però, collezionava tipi umani, divisi per mestiere, categoria sociale. Una sorta di fisiognomica. Nel fotografare zingari e preti, poliziotti e donne delle pulizie, maniscalchi e bohemienne, gli capitarono davanti alla macchina fotografica i primi nazisti. E lui a poco a poco capì che quelli non erano solo militari; intuì, attraverso la catalogazione, l'orrore.
Il fascino, allora, sta proprio qui: nella costanza, nella perseveranza di scegliere uno scopo e di farselo proprio. E quella che può apparire un'ossessione sul particolare si trasforma nella capacità di leggere, per suo tramite, una grande storia generale.
Ci sarebbe anche la storia dei Becher da raccontare. Di questa signora con la frangetta e il caschetto bianco e grigio e di suo marito. Insieme, uniti come il guscio di un uovo che non ha punti di giuntura, hanno creato una cosa tutta loro, hanno espresso la loro unione singole e personale, in un linguaggio che tutto il mondo conosce con il loro nome. Ma questa è un'altra storia.
2 commenti:
Bello il tuo racconto, toccante.
Ieri difronte alle foto e alla chiarissima forza di Hilla hoprovato un grande senso di smarrimento. Conosco il loro lavoro da anni ma non ho mai avuto modo di vederlo attraverso il racconto diretto.
Questa mattina riguardando un loro catalogo di torri d'aqua comperato nei primi anni '90 in germania, ho trovato una frase in cui dicevano che se di fronte ad un soggetto non trovavano il punto di vista ottimale e la luce giusta lasciavano perdere e non facevano la fotgrafia.
Ogni fotografo dovrebbe riflettere...
oscar
Bel racconto Paris! mi è piaciuto anche il parallelo con Sander....aahh che bei ricordi!
Ci porto Nic alla mostra!
Cris
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