8.
Queste storie, Sam, me le raccontava la sera. Ci mettevamo sul terrazzo, o a letto, le luci spente, le finestre spalancate per rinfrescare la casa in quelle notti di torrida estate, solo la fiamma di qualche candela, che lui ogni tanto usava per accendere una sigaretta. Avanti così fino a notte fonda. Sam ricordava, parlava, raccontava. Si animava nel ricostruire dialoghi, luoghi, avventure come se stesse mettendo in piedi la sceneggiatura di un film. A me, infatti, sembrava di vedere già scorrere le immagini. Io ascoltavo, cercando di non perdere una virgola, perché la mattina dopo dovevo trascrivere tutto. Anche a mano, scrivendo freneticamente sulla mia agendina. Era il mio film, il mio sogno, e non volevo che mi scappasse di mente. Lo dovevo riportare nero su bianco, anche per poterlo rileggere e convincermi che era vero, che lo avevo vissuto sul serio.
Sam stava male. All’inizio non era così. “Mi vergognavo”, mi confessò un giorno. Aveva pudore a mostrarmi le sue crisi di panico, o di depressione.
“Ho paura di fare la fine di mio padre”, si lasciava scappare di tanto in tanto.
E mentre leggevo il libro di Pete K., i brividi mi correvano giù per la schiena.
La copia che arrivò a casa mia, a Bologna, dopo una ventina e forse più di giorni di navigazione, recava all’interno il timbro della biblioteca di qualcosa che assomigliava a un centro sociale: "Unemployment Action Centre", era stampigliato in color ruggine sulla prima pagina, poi un indirizzo di una località americana. Le pagine ingiallite, i bordi frastagliati e l’odore di polvere e muffa: mostrava i segni di tutte le mani attraverso cui era passato. O semplicemente, era transitato per diverse cantine, traslochi e robivecchi prima di arrivare in vendita sugli scaffali di quel negozio dell’usato a New York, da cui – mi immaginavo io – un commesso incredulo un giorno l’aveva rispolverato per spedirlo, senza figurarsene la ragione, a una tale che lo aveva richiesto da una città a lui sconosciuta dell’Italia.
La sovracopertina aveva un’immagine eloquente: il primo piano di una natura morta (e mortifera) costituita da un posacenere pieno di cicche, una bottiglia di birra aperta e un vasetto con alcune pillole rovesciate fuori. L’incubo di Sam, che aveva sorriso guardandola e dando un tiro alla sigaretta. “Primo a poi smetto”, ripeteva ogni volta che comprava un pacchetto.
In quarta di copertina, un ritratto dell’autore: capelli brizzolati che arrivavano fino alle spalle, una camicia hawaiana mezza aperta sul petto. Pete aveva 52 anni quando scrisse quel libro. La stessa età di suo figlio al momento in cui io lo avevo conosciuto. E i due si assomigliavano più di quanto sia lecito tra un padre e figlio.
"Anche mio padre faceva il giornalista", mi aveva raccontato al nostro primo incontro.
"Che tipo di giornalismo?", gli chiesi.
"Raccontava storie".
Pete raccontava nel suo libro che il suo lavoro era cercare storie, personaggi, vite straordinarie, o semplicemente fuori dall'ordinario, dalla quotidianità di chi li avrebbe lette; ci poteva anche mettere una settimana o due per scrivere un articolo, pezzi lunghi in cui la scrittura aveva ancora un ruolo da protagonista.
"Me lo ricordo mio padre che stava ore e ore alla macchina da scrivere. Batteva sui tasti con due dita: non aveva mai imparato davvero a dattilografare, ma andava veloce comunque".
La sua lunga lettera alla moglie aveva un attacco molto giornalistico, ad effetto. Le prime pagine erano la fedele riproduzione del documento che aveva sancito il divorzio tra i due; quelle a seguire il lungo referto di un medico che aveva diagnosticato la sua depressione.
Poi il racconto di una vita vissuta nella routine di un giorno dopo l'altro, notti scampate ai pensieri più neri tra alcol, sigarette e sonniferi, mattine stordite, animate da qualche buon proposito che già nelle ultime ore del pomeriggio aveva speso di gran lunga quel poco di slancio con cui si era affacciato al nuovo sole.
Pete dopo il divorzio si era trasferito in quello che descriveva come un mini appartamento di Manhattan. Dei figli parlava poco; qualche fine settimana in campeggio, qualche visita, ma poco altro. Come tutti i depressi, Pete non sembrava vedere granché al di fuori della spirale del suo male oscuro. Lunga e sofferta, alla fine del libro arrivava la decisione di lasciare gli Stati Uniti alla volta delle isole Samoa, con l'idea, l'illusione, di cominciare un'altra vita. Così non sarebbe stato.
"Qualche anno prima di morire - mi aveva raccontato Sam con un tono di risentimento nei confronti del padre - si era trasferito a San Francisco, in un minuscolo appartamento in cima a una strada. Ogni tanto andavo a trovarlo e mi si stringeva il cuore. Lui si sentiva a disagio, si sentiva in obbligo di liberarmi presto dal peso di quella visita. E passava il tempo a commiserarsi".
Poi arrivò il giorno del suicidio: in garage, con il gas di scarico dell'auto. Di più non ho mai saputo. E anche quei ricordi Sam me li ha sempre riportati in modo molto confuso. Neanche si ricordava l'anno in cui tutto questo era successo.
Un giorno, tornando a casa dal lavoro, trovai Sam lungo disteso sul letto. Aveva passato la giornata a leggersi il libro di suo padre. Forse ero stata egoista, mi rimproverai più tardi. Avevo indotto Sam a quella lettura per una mia esigenza di conoscenza, di mettere lui e la sua vita a posto nelle caselle della mia testa. Lui, invece, di ordine non ne aveva nessun bisogno. Anzi, faceva di tutto, da anni, per rimuovere.
Oppure no. Quando se ne andò, infatti, si mise il libro in valigia, contento anche se stupito che il caso, la vita avesse voluto che a farglielo conoscere fosse stato qualcuno molto ma molto lontano da tutta quella storia passata.