Due ragazzi, Avram e Ilan, e una ragazza, Orah, sedicenni confinati in un ospedale dimenticato dal mondo. Fuori, la guerra, l´ennesima d´Israele, quella dei Sei giorni, del 1967. In più di settecento pagine si arriva a oggi, in un lungo racconto sull´amore al tempo della guerra. È l´ultimo romanzo di David Grossman, "A un cerbiatto somiglia il mio amore" e stasera (ore 21) lo scrittore israeliano lo presenterà all´Arena del Sole, intervistato da Giovanna Zucconi (incontro a cura di Librerie. coop). Alle 17.30, Grossman sarà alla Feltrinelli di piazza Ravegnana per firmare copie del libro.Insieme a Oz e Yehoshua, Grossman fa parte di quel trio letterario che negli ultimi decenni ha raccontato al mondo un paese complesso come Israele. Con loro in questi giorni è promotore di una nuova formazione politica, una «Cosa» della sinistra israeliana. «È una mossa molto importante per dare una scossa alla sinistra israeliana, soprattutto in vista delle prossime elezioni», racconta lo scrittore in Italia anche per presentare il film «Qualcuno con cui correre», tratto dal suo romanzo, ora nelle sale italiane.
Signor Grossman, che rapporto ha con la politica?
«Sono riluttante a partecipare a qualsiasi gruppo politico e non ho la tessera di nessun partito. Mi sento come il pazzo sulla collina della famosa canzone (The fool on the hill dei Beatles, ndr.): mi trovo meglio a essere colui che da una posizione al di sopra delle parti abbaia, grida, senza mai unirsi al coro. Uno scrittore che si unisce al coro indebolisce la sua voce. Tuttavia, le prossime elezioni israeliane sono cruciali per il futuro d´Israele, quindi è necessario anche da parte mia avere un ruolo più attivo».
Il suo romanzo ha un inizio folgorante: un dialogo serrato tra due persone che non ci vengono presentate, subito al cuore dell´argomento. Come è arrivato a questo incipit?
«È l´infatuazione che ho da sempre per i radiodrammi ad avermici portato. Vi partecipavo sin da bambino e ne ho scritti tanti nella mia carriera. Avram, uno dei personaggi della storia, è un appassionato, tanto da prevedere che la radio nel tempo avrebbe soppiantato la televisione. Oggi sappiamo che non è stato così, tuttavia io continuo ad amarla molto perché lascia più spazio all´immaginazione».
Orah ad un certo punto parla della guerra come di una `sfera indistinta´: un attentato di qua, un omicidio di là attraverso cui lei passa senza voltarsi indietro. È questo il sentire degli israeliani?
«Può sembrare che ci sia indifferenza nei confronti di una guerra che dura da cent´anni, ma è un´illusione data dalla disperazione di sentirsi condannati a una guerra che non sembra finire mai. In questi cento anni non c´è stato un solo giorno senza un morto o un ferito. Questo ci conduce a una sorta di fatalismo pericoloso, lontano dal pensiero che ci sia un´alternativa per cui battersi».
I suoi libri hanno in primo piano le vicende del suo paese. La letteratura può aiutare a capire la situazione israeliana?
«Può aiutare più dei mass media perché aiuta ad andare oltre gli stereotipi, a mobilitare le emozioni più profonde. Lo dimostra un aneddoto: ogni volta che Shimon Peres andava in visita a un paese straniero si informava tramite i rapporti ufficiali ma anche leggendo un paio di romanzi esemplari di quel paese. Il meccanismo dell´identificazione coi personaggi letterari ci aiuta a capire di più».
La giovane letteratura israeliana mostra lo stesso impegno civile?
«Non proprio, forse per quella disperazione di cui parlavo prima. Autori della mia generazione o delle precedenti sono cresciuti sentendo la responsabilità e il dovere di correggere la situazione. Tuttavia, va sempre ricordato che al sopra di ogni guerra esistono esseri umani alle prese con le loro emozioni primarie, come l´amore, il sesso: non è detto che uno scrittore debba a tutti i costi rifarsi all´attualità».
Il libro si chiude con il ricordo di suo figlio Uri morto in Libano nel 2006 durante una missione militare. In che modo la scrittura ha aiutato lei a trovare una ragione in questa tragedia?
«Scrivere crea sempre per me un luogo in cui posso vivere. Tornare a scrivere mi ha permesso di ritrovare il mio posto, anzi un nuovo posto dopo quanto successo, un luogo dove la vita aveva ancora un senso, un gusto. E dove anche il dolore poteva avere un senso».
Mia intervista a Grossman, da Repubblica del 21 nov. 08