giovedì 30 agosto 2007

Capitolo 4


4.

A Santa Fe aveva abitato sua madre, sino alla morta nel gennaio di un paio di anni prima che io lo incontrassi. Non c'ero mai stata, come non ero mai stata in nessun altro posto degli Stati Uniti se non New York. Ma New York, non sono gli Stati Uniti; è New York e basta.
A Santa Fe non c'ero mai stata, quindi, ma faceva parte della mia geografia emotiva e visiva: polvere, sole caldo, tanto caldo da far vibrare la linea dell'orizzonte. Poi i bush che rotolano nel vento. Sabbia e ancora polvere. Una macchina procede diritta e con andatura calma e costante come quella di una nave da crociera. Dentro questa cartolina, ora, avevo una storia da collocare, quella di Ann, la madre di Sam. Era stata una giornalista, come me, come il padre di Sam che lei aveva incontrato quando, crocerossina, aveva lavorato nell'Europa percorsa e devastata dalla Seconda Guerra Mondiale. Era là che aveva cominciato a scrivere e a fotografare con una di quelle Leica che Sam conservava in uno degli scatoloni in cui aveva imballato, riposto e stipato tutta la storia di sua madre e della sua famiglia.
"Insieme a mia madre, sei la persona più elegante che abbia mai conosciuto", mi disse una volta Sam.
Di Ann avevo visto solo una foto che lui si portava sempre dietro in valigia. Un giorno, spostando il suo borsone da cui straripavano i vestiti, era saltata fuori una carpetta di cartoncino. Dentro, tutto l'essenziale per chi, come Sam, aveva scelto di vivere senza casa: fotocopie di documenti e dell'assicurazione sulla vita, una agenda con gli indirizzi degli amici e le persone che aveva conosciuto in giro per il mondo, perché un giorno, chissà, può essere che "ripassi da queste parti". Infine, quella piccola immagine sgualcita in formato cartolina. La signora nella foto doveva già avere una settantina d'anni, capelli lisci e in gran parte ancora neri, pettinati con una riga da un lato e tagliati dritti e decisi qualche centimetro sopra le spalle. Un paio di occhiali neri da sole impedivano di vedere gli occhi, ma il volto magro, il naso affilato, il sorriso bianchissimo e il collo lungo me la fecero immaginare come un'americana di prima scelta, wasp dicono loro. Sicuramente una donna elegante, dai tratti fieri, forse un po' troppo.
Nella foto Ann stava seduta su un divano del suo ranch a Santa Fe, con addosso una giacca colorata, forse messicana. Attorno a lei un paio di sculture, alle sue spalle un batik e altre strani oggetti esotici appesi a quel pezzo di parete che rientrava nell'immagine. Erano, intuii, gli oggetti e i ricordi collezionati in una vita di viaggi: in India, in Birmania, in una Cina ancora poco frequentata dagli occidentali e in lungo e in largo per il Sud America. Di quel piacere per cose che provenivano da lontano, in un epoca in cui, senza internet, voli low cost e quella sorta di rete dell'artigianato mondiale che ha portato tutto ovunque, di quel piacere per il bello Ann ne aveva fatto anche un lavoro. Ad Aspen, in Colorado, dove si era trasferita dopo il divorzio dal marito, portandosi dietro Barney, Sam e Jan, rispettivamente quattordici, sedici anni e diciotto anni, Ann aveva aperto una boutique che era diventato presto uno dei cuori pulsanti della città, meta di acquisti ma anche imprescindibile punto di approdo e di smistamento della vita sociale delle star del cinema e della musica, degli artisti e del bel popolo che frequentava la stazione sciistica più in degli Stati Uniti.
Bella, nonostante gli anni, e altera. Così mi pareva questa donna la quale ben prima che il viaggio, l'avventura e l'indipendenza diventassero una bandiera di emancipazione e libertà, aveva percorso, indipendente e senza paura, mezza mondo. Così me l'aveva raccontata Sam, calcando la mano su quella durezza che a me sembrava la fierezza necessaria per una donna che aveva voluto fare da sè e fare ciò che voleva, per lui probabilmente, era stata solo distanza, mancanza di affetto da parte di una genitrice ruvida, severa e testarda.
Altro aveva saputo di lei leggendo le pagine del libro del suo ex marito, Pete, il padre di Sam. Pete era stato un giornalista del Time Magazine. A 62 anni, quando Sam ne aveva 26, si era tolto la vita a causa di una depressione da cui non riusciva a vedere la risalita. Dieci anni prima, a pochi anni dal divorzio con Ann, aveva scritto un libro Letter to my wife, lamento e tormento di un uomo ossessionato dal male di vivere dentro a cui era completamente calato, incapace di vedere oltre, impossibilitato a vivere oltre l'orizzonte di ventiquattro ore, sopportando la notte solo stordendosi di whisky e azzardandosi ad attraversare le ore del giorno solo imbottendosi di antidepressivi. Da quella missiva lunga più di duecento pagine avevo imparato molte altre cose sul conto di Ann. Oddio, sulla Ann tracciata e descritta da un uomo che era stato da lei cacciato. Qualche anno prima, infatti, Pete aveva confessato alla moglie quella che per un uomo medio italiano di quegli anni sarebbe stata solo una scappatella con un'altra donna, roba da niente, neanche da prendere in considerazione. Pete, uomo fragile e insicuro, aveva dovuto confessarlo alla moglie, forse per sollevarsi dalla responsabilità di quel gesto. E lei in poco tempo aveva troncato il matrimonio. Forse, verrebbe da pensare, usando quella come una scusa per terminare una relazione con un uomo troppo più debole di lei, una zavorra che non era più disposta a trascinarsi dietro.
Come sapevo tutte queste cose? Un po' me le aveva raccontate Sam, un po' le avevo lette nel libro del padre, che il figlio non aveva invece mai letto.
"Robaccia, mi diceva mia madre tutte le volte che le chiedevo di quella sorta di diario pubblicato da mio padre", raccontava Sam.
"Lei non ne voleva sapere. Aveva cancellato mio padre e così anche quel libro per lei non era mai esistito".
Io, più di trent'anni dopo, l'avevo rintracciato su internet, in un negozio di libri usati di New York e in quindici giorni era arrivato fin qui, a Bologna.
(4. Continua)

mercoledì 22 agosto 2007

Diario Norvegese 2

Circolo Polare Artico, 22 agosto 2007


Il ragazzo viaggia con la madre, vengono da Monaco di Baviera e appartengono ad una aristocratica famiglia tedesca. E’ per questo che quando la madre, ormai sui trent’anni, rimase incinta di un amico di famiglia, di buona famiglia, ma pur sempre sposato, si cercò di mettervi una pietra sopra. Ventotto anni fa, questa è infatti l’età del ragazzo, non dava più scandalo una “ragazza madre”. Ovunque fuorchè nella loro famiglia, una delle più rinomate della Germania.
Lei, la madre, aveva però voluto avere a tutti i costi quel figlio che, nel corso degli anni, man mano che si faceva ragazzo, lei aveva trasformato nell’unico oggetto d’amore della sua vita, non tanto e non solo di amore materno. Al ragazzo quindi non era rimasta altra possibilità che assumere quell’aspetto da “nato vecchio” che non lo fa per niente sfigurare a bordo di questa arzilla crociera.
Al terzo giorno di navigazione la meta è il ghiacciaio Svartisen, il secondo più grande della Norvegia, e un piccolo villaggio di pescatori sulla costa Helfeland.
Bjørq Sørensen non è nata qui, “ma in città”, tiene a precisare. A Bodø, secondo centro per importanza nella Norvegia del nord, 44mila abitanti, molti dei quali giovani, dal momento che la città vanta tra i migliori centri di ricerca e le migliori scuole tecniche del Paese. Per il resto, poco altro da vedere, perchè la città è stata completamente ricostruita tra gli anni Cinquanta e Sessanta secondo una architettura di poco valore.
Støtt, ecco il nome del paese di Biørq, sono 48 anime oltre il Circolo Polare Artico, oltrepassato questo mattina alle 7. Qui Biørq ha avuto i suoi tre figli, che però ora vivono in città, uno anche a Oslo.
Si vede che Biørq è una di città, per come si veste: una camicia di cotone bianca a piccolo righe nere, inamidata, chiusa fino al collo e coi polsini abbottonati, un paio di pantaloni blu con scarpe in tinta, unghie smaltate in chiaro (un vezzo inaspettato) e i capelli raccolti in un concio sul basso della nuca.
Quando arriva l’imbarcazione dei turisti, lei si affaccia sul molo a riceverli, poi si mette immediatamente dietro la cassa del suo emporio “AS Sømersen Sønner”, un ipermercato in miniature: libri, chiodi, stivali di gomma, etichette gommate per le spedizioni postali, vestiti per bebè, sciroppo per la copertura dei dessert, lasagne Knorr, matite, carta per avvolgere sandwich, mignon di liquori, cartoline, il calendario con le foto d’epoca degli abitanti di Støtt e molto altro. L’edificio del negozio è del 1750 – stando almeno a quanto recita un foglietto per turisti – ed è in coabitazione con l’ufficio postale; il telegrafo arrivò qui nel 1894. C’è un forno per il pane, anch’esso di vecchia data, l’elettricità è arrivata attorno al 1950 quando, in un momento di ottimismo, costruirono un nuovo edificio per accogliere la scuola locale attiva da decenni. Oggi è chiusa. Dei 114 abitanti che si contavano nel 1969 ne rimangono del resto meno della metà. Bjørq ha ovviamente una gran voglia di chiacchierare e così racconta al ragazzo che lei da qui, dieci anni fa, ha preso su per andare a vedere l’Italia: Roma, Firenze, Venezia, Siena, Ravenna.
“E Casablanca”, aggiunge. Non che non sappia che Casablanca è in Marocco, ma visto da qui, laggiù è tutto sud.
Støtt sarà anche in capo al mondo, ma non poi così fuori dal mondo. Ogni giorno vi approdano molte barche di turisti ma soprattutto di pescatori. Nel 1910 erano almeno un migliaio i pescatori che gravitavano attorno a questo posto. Un giorno si spazientirono perchè con così tanta gente in circolazione non c’era abbastanza acqua potabile. Quindi scrissero un telegramma alle autorità di Oslo. Per errore scappò uno zero in più, facendoli diventare diecimila, una cifra esorbitante, inimmaginabile, temibile quasi per le autorità che, infatti, provvidero subito a mandare acqua potabile.
Il ragazzo prende nota di tutto, scatta foto, gironzola per quelle quattro case sparse in mezzo alla brughiera e la madre non lo perde mai di vista. Non è preoccupata che il suo bambino possa smarrirsi o farsi del male. Ha solo paura di perdere il suo unico oggetto d’amore.

martedì 21 agosto 2007

Diario Norvegese. 1

Alesund 20 agosto 2007


L’uomo stava diritto in piedi sulla banchina, pronto davanti all’imbarco, impaziente per l’attesa dovuta alla discesa dei passeggeri che terminavano il loro viaggio ad Alesund. Indossava un paio di pantaloni neri larghi, ma di una foggia elegante, una camicia bianca abbottonata sino all’ultimo bottone ma senza cravatta, una giacca di cotone color paglia. Portava grandi occhiali da sole, anche se così a nord già sul finire di agosto di sole ce n’era poco, almeno per chi era abituato al sole del Mediterraneo; lui chissà da dove veniva.
Dalla tasca della giacca spuntava un romanzo, impegnativo a giudicare dal numero di pagine. Per mano teneva una grande valigia nera, di quelle con le ruote. Doveva essere stato un bell’uomo, lo era ancora nonostante l’età di sicuro oltre i settanta. Lei gli puntò contro la macchina fotografica e con il teleobiettivo gli rubò un ritratto: il profilo del mento magro, anche se la corporatura era un po' robusta, qualche pelo di barba bianca, di chi la mattina si era rasato in fretta, la linea del naso lungo, tagliato diritto. Il ritratto si fermava lì, tra il mento e il principio dello sguardo. L’uomo sembrò non accorgersene. Allora lei puntò di nuovo la sua macchina, questa volta più in basso, su un particolare che l’aveva colpita: i pantaloni, che sin dall’inizio erano sembrati troppo larghi, erano tenuti su da una pesante cintura di cuoio chiusa con una fibbia di metallo, sul genere di quelle texane.
A quell punto erano scesi tutti i passeggeri arrivati alla cittadina famosa perchè un incendio l’aveva completamente devastate nel 1904, per poi essere ricostruita ex novo per volere del re secondo lo stile di gran moda in quell tempo, lo Jugend Style.
L’uomo potè finalmente salire a bordo e lei dietro di lui, senza accorgersi, entrando nella sua cabina, che a quel viaggiatore solitario era stata assegnata quella a fianco della sua. Se ne accurse poco dopo, uscendo di nuovo dal suo alloggio perchè aveva dimenticato di prenotare la cena a bordo.
“La luce della mia cabina non funziona”, la investì lui in inglese.
“Hai infilato la carta magnetica nell’interruttore a fianco della porta?”.
“Sembri una persona intelligente”, le rispose infilando la tessera e scoprendo che la luce si accendeva.
Lei si allontanò, mentre l’uomo le mandava un bacio stampato su due dita in segno di ringraziamento.
Quell’uomo l’aveva incuriosita, diciamolo pure, le era piaciuto. Così a cena si era presentata ansiosa di rivederlo. Ma lui non si era palesato; non aveva del resto l’aria di uno pronto a cenare alle otto in punto, insieme a quel mare di anziani (“vecchi”, avrebbe detto lui, settantenne) in crociera. Anche lei non avrebbe mai immaginato di potersi trovare un giorno su una nave da crociera. Certo, il fatto che quell’albergo natante navigasse di fiordo in fiordo lungo la lunghissima costa norvegese assicurava un’atmosfera differente dallo stile “Love Boat”, fuori dal mondo. E se l’età media a bordo scendeva sotto i settanta, era solo per la presenza di qualche neonato e di qualche sparuto giovane. Molti dei passeggeri erano nordici, con le signore dai capelli ‘tagliati a pentola’, si diceva quando eravamo piccoli, indaffarate tutto il tempo a lavorare a maglia o a punto croce. Poi gli americani, che per tutto il viaggio non si toglievano mai di dosso da appesa al collo la targhetta con il nome e la provenienza: Greg Pear, Ohio; Fred Walker, Texas; Mary Rose Smith, Washington DC….
Quella vacanza era stata una scelta stravagante, quindi una piacevole sorpresa. La nave era partita da Bergen alla volta di Kirkenes, oltre il Circolo Polare Artico. Quelle imbarcazioni erano chiamate ancora, in modo romantico, postali, anche se di qualla tradizione erano rimaste solo le rotte. Ora erano per lo più barche grandi e moderne, per più di 800 passeggeri, turisti che facevano a bordo l’intero percorso o solo una parte, ma anche qualche norvegese che sceglieva quel mezzo di trasporto per spostarsi da una città all’altra. Si navigava lungo i fiordi, attraversando verdi colline che raramente diventavano alte montagne, ma non per questo meno impervie, e brughiera, brughiera, brughiera, il tutto intrecciato al mare. Era quello che Giorgio Manganelli in un suo reportage aveva chiamato il deserto della Norvegia, sebbene la parola ‘deserto’ suonasse cosa strana a chi, meridionale del mondo, pensa questa forma di paesaggio come fatta solo di sabbia e arsua.
Ogni giorno, a volte di notte, si attraccava nei porti di cittadine più o meno grandi che aspettavano ancora il postale, non per le merci che portava con sè, ma per i viaggiatori che scendevano a frotte (ma frotte discrete) per visitare i centri toccati dal percorso o, salendo verso nord, ghiacciai, gruppuscoli di case, terre di frontiera il cui centro d’attrazione era il Polo Nord più che l’Europa.
Ogni volta che lei si era ritrovata in una condizione simile, si rendeva conto di una banalità: il turismo di massa aveva di gran lunga snaturato il piacere, la sorpresa del viaggio come scoperta geografica. Ma il piacere rimaneva nella scoperta di una piccolo, nuova parte di sè che il viaggio continuava a regalare a chi lo intrapprendeva.
Navigando lungo questi pensieri, la cena passò e verso le undici lei si ritirò per la notta, chiedendosi ancora dove era finito il suo vicino di cabina.

sabato 18 agosto 2007

Capitolo 3

3.


Il capitolo Santa Fe è chiuso. Laggiù non è rimasto più niente, se non ricordi e qualche buon amico. Caricare il camion preso a noleggio ha richiesto il suo tempo, vista la quantità di roba. Poi bisognava che tutto fosse legato ben stretto e sicuro, per resistere al vento e agli impervi passaggi di montagna. La collezione di oggetti di mia madre era già stata imballata in modo professionale nei mesi scorsi, in scatole robusto e adatte per il trasporto. Così, perlopiù è stato come comporre un puzzle. Poi, però, c’erano le mie cose: sci, chitarre, tamburi, biciclette, vestiti ed ancora vestiti, mobili, cose per la cucina, utensili e 15 meravigliose coperte polacche, iraniane e degli Indiani d’America. Nell’insieme, un carico pesante.
Non siamo riusciti a mettere tutto sul portapacchi, per cui ci è toccato di caricare la mia Volvo Station Wagon del '78: Jacques al volante del camion, con il suo piccolo, pazzo terrier belga, io alla guida della station wagon. Davanti a noi 400 miglia, circa 580 chilometri, attraverso il deserto del New Mexico settentrionale, poi su per le montagne e le vallate del Colorado meridionale.
Con un occhio alla strada e l'altro su ciò che mi sta intorno, osservo antilopi tra i cespugli di artemisia, aquile dorate contro il cielo di un blu solido, cervi sul bordo della foresta. Nonostante il rumore del motore della mia macchina, sento l’acuto, dolce richiamo del maschio dell’allodola. Vedo volare tra i pendii uccelli neri con le ali tinte di rosso, impegnati nei loro volteggi, mentre i maschi inscenano schermaglie con le femmine, ansiosi di cominciare la costruzione del nido.
Più ci inoltriamo nelle terre del Colorado, selvaggio e disabitato eccetto che per qualche ranch isolato, e più ci ritroviamo a guidare attraverso centinaia di miglia di cielo blu cobalto. A nord e ad est si vedono cime infuriate e coperte di neve, lontane forse 200 miglia, e fiumi che scorrono attraverso i prati d’alta quota. Ci sono alcune nubi ora, e le loro ombre si muovo di scatto sulle cime delle colline che corrono veloci davanti ai nostri occhi. Talvolta le acque sono rosse, per la terra lavata via dalla pioggia. Passiamo lungo la Blue Mesa Reserviour, la più grande riserva idrica del Colorado, con il sole che balla sull’acqua increspata dal vento. Un'aquila pescatrice vola di fronte alla mia macchina, in direzione dei laghi e dei pesci, non più distante da me di una decina di metri. Riesco a vedere i suoi occhi attenti, puntati forse verso l’ombra di una trota. Procediamo ora giù verso i monti occidentale del Colorado. Le piantagioni di banana, la terra fertile e le acque abbondanti che annaffiano gli alberi di ciliegie, pesche, albicocche, pere, prugne, nettarine e mele.
Siamo nel momento più caldo della giornata, le quattro del pomeriggio, e nonostante i finestrini aperti, comincio a sudare. Più tardi verremo a sapere che questo è il giorno più caldo dell’anno, al di là di ogni media stagionale. Il riscaldamento del Pianeta incombe sopra le nostre teste.
Quando ci fermiamo per fare benzina in una piccola città, e per dare al cane una pausa, il caldo mi fa venire in mente la stagione premonsonica nella lontana Asia. Ci si potrebbe friggere un uovo sul lato della strada o sull’asfalto del parcheggio. Attorno a noi ci sono ristoranti, fast-food, stazioni di servizio, discariche di automobili, aree di sosta per i camion. E ancora negozi di armi e di articoli sportivi, dinner e outlet di paramenti da cavallo. Un motel di periferia, forse vecchio di vent’anni, con su una scritta scrostata da cui ancora si legge “disponibilità di stanze con la tv a colori”. Spunta un cimitero, con alcuni alberi a fare da ombra: ci entriamo, tanto per far correre un po’ il cane, il quale, ovviamente, trova subito una pozza d’acqua stagnante e piena di fango. Quando torna da noi, è tutto sporco ma felice, e puzzolente come un cesso. Così mi tocca di tornare indietro in città per recuperare qualche litro d’acqua per lavarlo.
Avanti ancora, verso Paonia, Colorado.
Quando ho venduto la mia casa di Aspen quattro anni fa, a Paonia ho traslocato tutte le cose accumulate in 35 anni di vita, impacchettate in un grande magazzino che costa un quarto di quello di Santa Fe o di quello di Aspen. Guidiamo lungo cittadine di allevatori soffocate dal caldo e tra comunità di bandiere sventolanti. Sulla strada grandi pickup con i loro fucili che penzolano dal finestrino posteriore e con i loro rivoltanti adesivi con le scritte "God Bless America”, “America - Love it or leave it”, “Support our troops” o “Jesus is the answer". Questi mostri enormi, quasi tutti con solo il guidatore a bordo, e con la radio locale che erutta musica country, sorpassano la mia station wagon emettendo schifezze tossiche, consumando probabilmente mezzo gallone di petrolio raffinato solo per quella manovra.
Appena si posano su di me, vedo i loro occhi carichi di duro lavoro, di un ego che si giustifica da solo e machismo e pregiudizi nei miei confronti a causa dei tanti, controversi adesivi che ricoprono il retro della mia strana jeep da safari, che fa paura, rompe la calma piatta, prende un’altra strada, forse un po’ per ‘provokazione’.
Ma qualcuno lo deve pur fare. E questo è non è niente in confronto ai giorni in cui guidavo un Maggiolone Volkswagen con un iguana imbalsamato lungo quasi un metro come ornamento.
Dove ero rimasto? Oh si, alla piccola città di Paonia; un'ora e mezza di machina da Aspen, trequarti d'ora se sei un corvo. Dolcemente siamo arrivati, ma stanchi e con la schiena contratta in un nodo di tensione. Siamo finiti in un motel lungo la strada, troppo costoso, ma in buona posizione. Sono stato costretto a pagare altri venti dollari per l'animale domestico, dal momento che il divieto Non-è-consentito-tenere-nessun-animale-domestico è in realtà solo una maniera per la direzione per fare su più soldi. Avrebbero dovuto essere loro a pagare per il divertimento ricevuto dalla conoscenza con Nuget, il nostro compagno di viaggio canino, dal momento che se ne sono subito innamorati, come chiunque del resto.
Ok....qui ci vuole una piccola pausa....spero che tutto questo ti risulti interessante e in qualche modo ti aiuti a farti un'idea. Chiudo velocemente, sebbene potrei continuare per ore. Immagina se mi spingessi indietro con il racconto fino alle piantagioni di thè nello Sri Lanka, e alle cerimonie e ai riti degli indiani del Messico. Ma questa è un'altra storia, sebbene parte dello stesso libro.Ecco qui, allora, oggetti d'arte e memorie, vecchie foto di mia madre e la sua sterminata (e pesantissima) libreria, le tele di quel famoso artista folk indiano e la testa di drago da cerimonia impacchettata nella più grande di tutte le scatole (circa un metro per un metro) che in qualche modo sono riuscita a trasportare fin qui, in questa cittadina di facce rubizze, bandiere sventolanti e frutti che crescono a dismisura, in questo tardo pomeriggio di una primavera arroventata. Le maschere da cerimonia dei vecchi sciamani del nord sono nelle loro scatole scure, con i loro feticci di pesci, corvi, sole, terra, uomini, alberi, acqua, cervi. Tutti scolpiti con lentezza e rispetto, nello spirito e alla maniera dei nativi americani.
Il grande Rauschenberg con dedica a mia madre, il Roy De Forests, il suonatore di piano con la sigaretta nella mano, opera di quel famoso e scandaloso artista messicano di cui ora non ricordo il nome, il dipinto meraviglioso di un uomo che fischia all'uccellino che canta sulle sue ginocchia e che mia madre comprò a Berlino mentre faceva la crocerossina durante la seconda Guerra Mondiale. Ora è tutto qui, in scatole sicure e costose: S23, S11, S2, S37, S-qualcosa. S sta per Sam, sono le mie cose, mentre le J, quelle di Jan, mio fratello, sono ancora ferme nel magazzino di Santa Fe. Forse un giorno se ne occuperà, forse no. Conoscendo sua moglie Louise, potrebbero anche già averle vendute al migliore offerente. In questo modo riuscirebbe a passare di grado nella sua scala di valori, comprandosi una Jaguar al posto della Mercedes che usa per fare la spola avanti e indietro dalla scintillante LA.
Ooops, sto uscendo dal seminato, devo tornare indietro all'avventura.Non appena le prime luci hanno cominciato a picchiare le cime più alte delle montagne ancora innevate, Jacques e io eravamo già a colazione in una piccola tavola calda. Era piena di minatori, svegli all'alba per il lavoro, o appena smontati dal turno di notte. Il parcheggio pieno di pickup, grandi e sinistri. Mi concedo un pasto caldo e un caffè, pensando "non sono poi così diversi da me". Fanno il meglio che possono, cercando di giocarsi al massimo quel poco che gli è stato dato in sorte. Compassione, ne ho ancora un po' qui, dentro di me.Ed eccoci nel nuovo magazzino: tutto è scaricato e sistemato in due ore. Mi sento sommerso dalla quantità di cose, beni bellissimi piovuti nella mia vita semplice. Così pure mi sento sommerso dal tempo, dal denaro e dall'energia che creano. Invece di provare un senso di appagamento e di sollievo, ecco arrivare una sensazione di pesantezza, di obbligo, una sorta di responsabilità. Forse un senso di colpa per non essere altro che un robivecchi.
Mi trovo tra le mani dei meravigliosi pendagli fatti di conchiglie indonesiane, vecchi di 35 anni. E scatole e scatole di crani di scimmie, tartarughe, delfini, cervi, cavalli, uccelli, pesci, serpenti, lucertole, orsi, canguri, oche. Corna di tori che hanno posseduto harem di 30 e passa vacche. Scatole di piume d'aquila, di tacchini selvaggi dalla pelle dorata, raccolte tra le rovine degli antichi Maya, ali perfettamente conservate delle più grandi oche canadesi, penne di gufo e molto altro ancora, tutto raccolto negli ultimi 40 anni. Tessuti esotici, arazzi da muro, cappelli amazzoni, tamburi da cerimonia, meravigliose pelli di coyote, di soffice daino e di serpenti giganti. Poi c'è il barile di legno del Borneo, i totem ancestrali alti tre metri, provenienti dall'isola di Giava, il cavallo d'acciaio della Polinesia...
Anche la station wagon è stata messa in una scatola, un deposito per le auto economico e sicuro, con le quattro ruote liberate dal peso e sospese sul pavimento. In riposo, in attesa. Sognando i giorni passati. I giorni in cui faceva la ruggine, le porte incurvate, le gambe stanche e abusate. Ora è timida e orgogliosa, una giramondo, benedetta e amata. Eccessivo attaccamento? Forse.
Altri quindici anni così e sarei pronto ad aprire un museo...
Ed eccoti qui. Eccomi qui. Bevendo una birra messicana dietro l'altra. Forse l'avevi capito dalla mia scrittura. Forse no.In questo momento sono nella 'fantasyland' di Aspen con Jacques. Lui e Nougat hanno dormito a lungo. Le montagne che conosco così bene ci circondano. Il fiume è in piena forza ma può ancora crescere, a memoria del suo scorrere che mai finisce. Picchi e valli, forza e dolcezza, ma soprattutto ciò che mai finisce.Sono stanco. Volevo addentrarmi in qualcosa di più personale, ma per ora questo può bastare.
LOVE.
E l'augurio di ogni bene a te e alle persone a te care.
Il mio cuore non sarà mai chiuso.
Sam
(3. Continua)

(foto di David Koffend)

venerdì 17 agosto 2007

Sfida di Ferragosto


La città d'estate è una sfida alle mie paure: il vuoto, la sospensione, l'assenza, la mancanza di punti di riferimento. Forse è per questo che da un po' di anni a questa parte mi ritrovo, più o meno per scelta consapevole, qui per buona parte d'agosto. E mi piace. Mi piace il senso di libertà che questa sfida mi regala, mi piace Bologna, così detestata per tutto il resto dell'anno, mi piace la comunità dei superstiti di cui ti ritrovi a far parte e di cui senti la solidarietà, mi piace il poter vivere la città senza fretta, senza fare niente, perdendosi. Magari può succedere, di tanto in tanto, anche nel resto dell'anno di ritagliarsi un giorno di cazzeggio, ma l'attività che fuori continua a premere e a fremere poi ti fa subito sentire in colpa.
D'agosto, no. E' tutto un altro mondo.
Da bambina non era dato che d'agosto restavi in città: venti giorni di montagna, partenza di buonora, "e quest'anno non voglio caricare tutte quelle valigie e valigine come gli altri anni". Raccomandazione inutile. Un viaggio in macchina di tre ore, tre e mezzo al massimo sembrava la traversata dell'oceano a bordo di una zattera. E mica parliamo del paleolitico del turismo: le autostrade c'erano già, le macchine filavano eccome. Era lo spirito che mancava, che non è mai stato dalla nostra. Dalle Dolomiti il giorno dopo ferragosto si commentava sul Carlino la foto di "Bologna, chiusa per ferie", col solito pedone padrone unico di via Rizzoli.
Così il primo ferragosto in città da sola, molti anni fa ormai, me lo ricordo come un'avventura, roba da pionieri. In moto, con un amore (che amore!) estivo, usciti di casa per cercare qualcosa da mangiare, tornati il giorno dopo, a forza di girovagare per strade di collina.
Ma Bologna non è più la stessa neanche sotto questo punto di vista e il giorno di ferragosto, macchina fotografica in spalla come un turista straniero, si fa fatica a trovare una strada deserta. La sorpresa è la sera, quando uscire di casa non è come uscire di case le altre sere dell'anno, è come cambiare stanza, fare il giro di una casa diventata più grande, la casa estesa a tutta la città. Si esce in ciabatte, infatti, nelle sere d'agosto. Poche auto, rumori domestici che scappano dalle finestre lasciate aperte. I pakistani non chiudono neanche a ferragosto, sulla soglia del negozio tutta la famiglia sta seduta a vedere il passaggio (??). Sono principalmente loro, i residenti stranieri, ad aver cambiato il volto della Bologna d'agosto: sono tanti e sembrano di più, meno stemperati tra i nativi perlopiù in vacanza.
L'immagine più bella di questa notte d'estate? La facciata della chiesa di via Cesare Battisti (come si chiama?) finalmente sgombra da macchine. Sull'angolo solo una Cinquecento bianca, troppo in là negli anni per affrontare gli spostamenti verso mai e monti.
La più inquietante? Un monolocale, quasi uno scantinato a pianterreno. Dalla finestra socchiusa si vede un uomo che guarda una piccola tv incastrata nel mezzo di una libreria, di fronte una parte con archi, spade e fucili appesi. Speriamo bene...d'estate, i fantasmi della città sospesa nel tempo non si agitano solo per me.

martedì 14 agosto 2007

Riviera Romagnola Evergreen


C'è tutto un mondo intorno, cantavano anni fa, molti anni fa, i Mattia Bazar. Questa è rimasta una delle mie citazioni preferite, e va' te a capire perché certe frasi ti rimangono appiccicate alle orecchie. E la cosa più bella è che tanta varietà di umanità ce l'hai il più delle volte sotto le finestre di casa. Gita al mare, con il mio amico Oscar Ferrari (http://www.oscarferrari.com/), prestigioso, rigoroso e puntiglioso fotografo, fotografo vero, di professione, e che professione.


Rimini-Riccione, Romagna. Cento chilometri da casa. Lì c'è un mondo che non esiste altrove, che riconosceresti tra mille: la Riviera Romagnola. Se la sono inventata loro, i romagnoli, popolo a parte. La Riviera Romagnola è quel luogo dove il mare non esiste, nessuno lo considera, o quanto meno, anche se non ci fosse, nessuno se ne dispiacerebbe più di tanto. Forse perché il mare non è un granché. Così gli alberghi sul lungomare gli danno le spalle, i bagnanti, più che spogliarsi, si agghindano, si apparecchiano, e il bagno si fa in piscina, a fianco del parcheggio per le auto.


La Riviera è la negazione della vacanze balneare, ma non esisterebbe senza i bagnanti. E con loro le famiglie, i cariolini, le palette, i secchielli, le lasagnette alle 13, tutte uguali in tutte le sale da pranzo della costa romagnola, poi le macchine, le bici, i pedalò, i risciò, i tandem, altri cariolini, i trenini ciuf!ciuf!, i ciaffi e le cianfrusaglie........L'importante che sia tutto concentrato, uno sull'altro, le urla dei bambini, i rombi dei motorini, le liti in cucina, gli sbadigli di chi si annoia.....E' il posto che in una giornata come questa, vigilia di ferragosto, ha la più grande concentrazione di ogni categoria esistente al mondo, per ogni metro quadrato che i romagnoli sono riusciti a strappare al mare.



Una piccola considerazione fotografica. So che Oscar non sarebbe d'accordo, perchè per lui la fotografia ha altra classificazione (vedi la discussione fatta a pranzo, di cui però non posso riferire), ma a me piacerebbe vedere queste foto tra vent'anni. Forse perché hanno già oggi il sapore del tempo, anche se sono paesaggi che non scoloriscono mai.


mercoledì 8 agosto 2007

Capitolo 2.

2.

“Ognuno si fidanza con la propria malattia”, ripeteva un amico perso troppo presto a noi ragazze quando piagnucolavamo per aver scelto ancora una volta l’uomo sbagliato. Anche se poi, chi lo dice che esiste l’uomo giusto? Che cosa fa di una persona un'entità così assoluta come quella di 'uomo giusto'? Ognuno di noi incontra chi è pronto a incontrare. Domani, diceva quella del film, è un altro giorno. E io avevo incontrato Sam. Bello, bellissimo. Sguardo diffidente e sorriso aperto. Camminata sghemba e spalle robuste. Soprattutto parlava un’altra lingua e veniva da molto lontano. Questo a me bastava per immagine che con lui avrei potuto fare punto e a capo, cominciare un altra vita, non più qui, non più così.
Avevamo vissuto insieme, improvvisamente, come mai mi era capitato nella mia vita. Si muoveva in casa mia come se da sempre fosse stata casa sua. Camminavamo l'uno accanto all’altra con lo stesso passo, nella stessa direzione.

(foto di David Koffend)


“C’era una volta due amanti. Lei era una giornalista, di buona e cattiva fama. Lui era di passaggio, dopo un safari dello spirito più che geografico, senza capo né coda in giro per mezza India, correndo dietro alle sue ombre e nascosto nell'ombra. Hanno camminato insieme per molti momenti di beatitudine, mescolati ad altri di confusione e di sofferenza per i loro cuori. Le piante sulla terrazza erano felici, il matrimonio degli amici in Sicilia è stato un momento felice, loro erano felici nel loro modo di essere unico ed eccentrico.
Sono stati sulle Dolomiti, in camminata, hanno socializzato qui e là, hanno corso con le loro biciclette, se ne sono stati a guardare le candele che bruciavano fino a spegnersi.
Ci sono stati molti sorrisi e molte chiacchiere.
Sento la mancanza di quei giorni”.

Così aveva scritto Sam in una mail, una volta che se ne era andato via e non se ne capiva il motivo. Oppure no, il motivo c’era ed era scritto lì: lui era di passaggio. Sempre e ovunque. Troppo difficile fermarsi. Troppo rischioso. E sebbene io avessi sognato di fermarlo, a me in fondo lui era piaciuto così, un escursionista del vivere senza patria e forse senza un perché.
I miei amici, se mai le leggeranno, rideranno di queste mie pagine. Il mio cinismo si prenderà gioco di me, rileggendo di questa mia vacanza dalla vita, da una vita costruita su un binario da cui faccio fatica a scendere. Ma questa è la storia di una vacanza che un tempo mi sono presa seguendo i racconti di un uomo che vedevo libero di vivere, a fatica e a volte per non sapere fare altro, la vita che gli andava di vivere. Non era un giramondo, non era quello che le signore della generazione di mia madre avrebbero chiamato un avventuriero. Era solo inquietudine la sua, impossibilità di stare dentro le sue scarpe. Era una battaglia che sembrava avere dichiarato con se stesso già poco dopo che era arrivato su questo mondo.
Di notte, tra una birra e l’altra, mi raccontava le storie della sua vita. In inglese, in una lingua che conoscevo ma che non era mia e di cui pertanto non distinguevo le ombre che facevano le parole una volta uscite dalla bocca. Lo seguivo attraverso montagne, mari e strade che facevano parte solo del mio immaginario libresco. Non mi importava se ciò che mi raccontava era vero o meno: era ciò che volevo sentirmi raccontare, erano le montagne, i mari, le strade che avrei voluto attraversare se solo avessi avuto il coraggio. La mattina dopo scrivevo tutto, per comporre il diario di questa vacanza che mi ero presa dalla mia vita di criceto.
Allora è chiaro che queste pagine sono la storia di un furto. Ho viaggiato da 'portoghese', lo ammetto, salendo a bordo senza biglietto al posto di qualcun altro, non tanto per scroccare il passaggio, ma per vivere tutta l'esperienza del viaggio.


(2. Continua)

domenica 5 agosto 2007

Il Crociato e il vestito rosso

Se una notte d'estate una ragazza con rosso vestito festeggia i suoi anni scalza, coi piedi posati su una vela da barca... Se un pittore con la faccia del Crociato spia la festa alla luce di una lampada... Da lì, seduti sull'altalena, la casa è quella di un presepe illuminato. Le palline rosse e bianche fanno rotolare la luce giù dal muro.




Palesio. Bell'Isola detta BelloSguardo. L'estate rallenta i ritmi, rarefà le connessioni. Ognuno si muove da sè, piano per non disturbare chi pisola sotto un albero. Insieme si vive, si condivide quel flusso ovattato. Soli, solissimi, si vaga coi pensieri, dietro le righe di un libro.

L'ultimo dio di Emidio Clementi. Pare che ognuno abbia una famiglia da raccontare, anche chi non ha nè santi nè eroi, nè avventurieri nè pionieri. La mia, così presente, pare di no. A stento ricordi. O forse sono stata io che non ho voluto chiedere.


giovedì 2 agosto 2007

Mal d'India


"Gli indiani sono gli italiani d'Asia - sentenziò Didier con un sorisetto saggio e malizioso . Si potrebbe dire con altrettanto certezza che gli italiani sono gli indiani d'Europa, ma credo che tu abbia afferrato il concetto. Sia gli indiani sia gli italiani hanno bisogno di una madonna: non possono fare a meno di una dea, anche se la religione gliela nega. Sia in India sia in Italia ogni uomo diventa un cantante quando è felice, e ogni donna una ballerina quando a va a fare la spesa dietro casa. Per questi due popoli il cibo è musica nel corpo, e la musica cibo nel cuore. E le loro lingue... fanno di ogni uomo un poeta, e ammantano di bellezza anche la peggiore banalité. Sono nazioni in cui l'amore fa di un gangster un cavaliere, e di una contadina una principessa, anche se solo per il breve istante in cui ti guardano negli occhi".
da: Shantaram di Gregory David Roberts


E fu a questo punto che mi accorsi del modo assolutamente naturale, ovvio, pacifico con cui il mendicante si collocava nel tessuto della società che intravedevo. E capii istantaneamente che in quella società, in quella cultura non c'è posto per la pietà individuale, non c'è quella dolorosa, disperata carità che lega l'Occidente al naturalmente morituro: né il mendicante, lo sventurato ha pietà di se stesso. I segni della malattia e della miseria non sono "sventure": vengono da lontano, vanno lontano; migrano da vita a vita, certificati dagli interventi degli dèi. Vi può essere pietà cosmica, la coscienza di una universale fatica intemporale ed anonima cui tutti ci dedichiamo e siamo consacrati. E quella assenza di pietà individuale faceva del mondo indiano un luogo tragicamente impervio, pervaso da una drammatica, incomunicabile dolcezza, una indifferenza senza sdegno, senza rimorsi, senza indulgenza.
Questa scoperta mi fece riguardare il mendicante e la sua tattica in modo diverso: mi proposi di non dare elemosine, non solo per sfamare la mia naturale avarizia, quanto per vedere se mi era possibile accettare la miseria, la malattia e la sventura come un evento che, diversamente collocato, ha altro senso che nel nostro mondo. Giacché in India si soffre atrocemente, ma la sofferenza è un segno diverso, ha un senso diverso. Capii che il mendicante contava sui miei sensi di colpa: ma io, coi sensi di colpa ci vado a nozze.

da: Esperimento con l'India di Giorgio Manganelli

L'India è 'tanta'. Tanti i rumori, i suoni, la gente, i sapori, gli odori, i colori gli stimoli che colpiscono i cinque sensi ogni ora del giorno e della notte. E tante e contraddittorie le emozioni e i sentimenti che un viaggio nel continente indiano ti procura.
Impossibile fare il turista in India. C'entri dentro, anche se solo per poco. Catturato, affascinato, ma anche spaventato.
Sono mille e ancora mille, ormai, i volumi in libreria sull'India, ambientati in India, scritti da indiani e non solo. Recentemente ne ho letti due, quelle citati, che vale la pena leggere, diversissimi e contrastanti come l'India, appunto. Quello di G.D. Roberts è un tomo autobiografico di 1200 pagine. Nonostante la mole, nonostante non sia un capolavoro di letteratura scorre via come un film di Bollywood: eterno ma impossibile da mollare a metà, per non perderne la fine. La prima metà del libro in particolar modo, e il suo incontro, da australiano, con il mondo indiano fanno ritrovare chiunque ci sia stato. Con umorismo, spesso e volentieri.
Manganelli, in cento pagine, racconta il suo esperimento con quel mondo. Mai parola, 'esperimento', fu più azzeccata per nominare ciò che l'India impone ai suoi visitatori. E l'aspetto mistico del cliché indiano poco ha a che fare con tale esperimento.